I paesaggi culturali vitivinicoli
del Piemonte di Langhe-Roero e Monferrato sono una eccezionale testimonianza
vivente della tradizione storica della coltivazione della vite, dei processi di
vinificazione, di un contesto sociale, rurale e di un tessuto economico basati
sulla cultura del vino. […] I vigneti di Langhe-Roero e Monferrato
costituiscono un esempio eccezionale di interazione dell'uomo con il suo
ambiente naturale: grazie ad una lunga e costante evoluzione delle tecniche e
della conoscenza sulla viticoltura si è realizzato il miglior adattamento
possibile dei vitigni alle caratteristiche del suolo e del clima, tanto da
diventare un punto di riferimento internazionale. I paesaggi vitivinicoli di
Langhe-Roero e Monferrato incarnano l'archetipo di paesaggio vitivinicolo
europeo per la loro grande qualità estetica.
Questa è parte della motivazione
con cui l’UNESCO ha promosso il territorio di Langhe, Monferrato e Roero come
patrimonio dell’umanità. In particolare il riconoscimento nomina: la Langa del Barolo, il Castello di Grinzane
Cavour, le Colline del Barbaresco, Nizza Monferrato e il Barbera, Canelli e
l'Asti spumante, il Monferrato degli Infernotti.
Non solo vino in realtà. In
queste terra c’è arte, cultura, sudore, fatica, emigrazione, terra dissodata.
C’è, meglio, c’era quel mondo dei vinti raccontato da Nuto Revelli quando
raccolse testimonianze di miseria, di vita strappata ai castagni e di capelli
di ragazza venduti per farne parrucche per ricche signore. Allora il vino era
una cosa da bere, non una ricchezza.
Sono terre di strade voluttuose come orgasmi
che si snodano fra colline verdi e ordinate, pulite, linde. E il vino si conserva negli infernot, camere
scavate nel tufo e nella roccia, spesso cave dalla quali si erano estratte
pietre per costruire la case. Sono diffusi nel Monferrato, sotto le case, dove
la luce non arriva e la temperatura è costante. Quale luogo migliore per
conservare il vino? La "pietra da cantoni", facile da cavare e lavorare,
diventava muro e casa, e lasciava il posto per il riposo delle bottiglie.
Monferrato, Langhe e Roero sono
fatte di colline e paesi, uno accanto all’altro, li passi, se capita entri nel
bar e ascolti vita che scorre. Alcuni hanno come secondo nome Cavour, Grazzano
è diventato anche Badoglio.
Un paese, in fondo, significa “non essere soli” come diceva Cesare
Pavese.
“…Così questo paese, dove sono nato, ho
creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho
visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi non so se da ragazzo mi
sbagliavo poi di molto… Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di
andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente,
nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti...”
Stanno in queste parole le emozioni e le sensazioni, ci sta il
Nuto, il falegname amico di Pavese, e ci sta il ritorno al paese. Perché
succede, capita, di sentirsi soli nelle città grandi, fuori dal proprio mondo.
Succede, capita di sentirsi spaesati e di avere quella saudaji che ti chiama,
ti sibila nelle orecchie un nome che può essere di Lei o di chissà chi, ti
riporta sapori vecchi, emozioni, profumi di erba falciata, magari di mosto.
Quella Langa che è stata vita e cordone ombelicale mai tagliato
per Pavese, Per Davide Lajolo, per Beppe Fenoglio. La cantano, la accarezzano,
nelle loro parole si trasforma in Nuto, in una donna sinuosa, un fiume
impetuoso. Nei loro scritti esistono modi e vezzi che solo chi conosce quei
territori sa cogliere al volo, esiste quella malinconia (saudaji) che fa parlare
di partenze e ritorni. Terra di “Masche”, streghe, arpie, cattive o buone,
dipende da chi raccontava la storia ai bimbi, misteri, perché “il fantastico sa che non ci sono solo gli
spiriti, ma soprattutto fatti misteriosi che l’uomo non si potrà mai spiegare”
(Davide Lajolo, Le Masche).
E chi
arriva si accorge che l’appartenenza ad un territorio è totale: “…Si rese definitivamente conto che le colline li
avessero tutti, lui compreso, influenzati e condizionati tutti, alla lunga,
come se vi fossero nati e cresciuti e destinati a morirvi senza conoscere
evasione od esilio...”
(Fenoglio,
il partigiano Johnny)
E Pavese che finì i suoi giorni quel 27 agosto del 1950, “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono…” lasciò
scritto e poi “…Ho cercato me stesso”…
Comunista, ateo, funerali frettolosi, laici per lui. Il paradiso non è roba per quelli lì.
“Il vizio assurdo” lo chiamò
Davide Lajolo scrivendo del suo amico Cesare. Lui, Davide, con un passato
da segretario del PNF entrato poi alla resistenza dopo l’otto settembre con il
nome di Ulisse, divenne deputato del PCI. “Veder l’erba dalla parte delle
radici” fu il libro con cui lo conobbi. La narrazione della sua notte in
compagnia dell’infarto, e il fluire dei ricordi sapendo di essere
prossimo a vederle quelle radici. A Vinchio, il paese langarolo in cui nacque e
in cui è sepolto, così si diceva di chi moriva, che andava a vedere l’erba
dalla parte delle radici.
Il Monferrato (Mons Ferratus) è zona collinare, compreso nelle
province di Alessandria e Asti, alla destra del Po giunge fino all’Appennino
Ligure e con la Liguria confina, a volte ci si fonde e confonde nella parlata,
nei gesti. In provincia di Alessandria molti paesi sono “liguri” nel nome,
spesso nella cadenza dei dialetti, non nella burocratica geografia (Novi Ligure, Gavi
ligure ecc.).
In Monferrato passava la
via del sale, con gli acciugai cantati da Nico Orengo ne “Il salto
dell’acciuga” che andavano con i loro
carretti a mano a portare acciughe e contrabbandare sale, loro fondevano mare e
collina ed arrivavano oltre, si diramavano per la pianura padana, portavano
terra, sale e sole. E a Genova (per noi che stiamo in fondo alla campagna)
andavano migliaia di contadini langaroli, monferrini, andavano a prendere quei
bastimenti verso l’Argentina e gli Stati Uniti. Per vivere, per sopravvivere.
Le Langhe confinano con il Monferrato e stanno a cavallo delle
province di Asti e Cuneo. Colline disegnate dai fiumi Tanaro, Belbo, Bormida di
Millesimo e Bormida di Spigno. Alta e bassa langa. Colline sinuose terre ora
ricche.
Il Roero è nella parte nord orientale di Cuneo, prende il nome
dalla famiglia Roero che per secoli dominò queste terre sfruttando coloni.
Erano luoghi da cui si fuggiva per cercare fortuna altrove, si
emigrava in Liguria, in città, nelle Americhe, in Francia. Terre in cui il
passato remoto nel parlato non esiste. E non esiste il superlativo , come fa
notare Aldo Grasso in un bell’articolo su Repubblica.
Il superlativo non esiste perché “esageruma nen” fa parte del lessico
comune (non esageriamo) il passato remoto perché occorre, saggezza contadina,
vivere qui ed ora. Forse è la discrepanza più immensa che ho trovato con il
Salento dove respirano ancora i martiri d’Otranto, dove i messapi siedono sugli
scogli la notte a parlare dei loro dei, o i romani passeggiano fra l’anfiteatro
e Rudiae.
E sono i luoghi di Luigi Einaudi, di Vittorio Alfieri, astigiano come Paolo
Conte, e perché non dire di un un patriota, poeta, anticlericale che a modo suo fece storia?
Angelo Brofferio nacque
a Castelnuovo Calcea, (At) il 6 dicembre
1802. Male vedeva il Cavour, troppo
monarchico e troppo servo degli inglesi. Disse di libertà di stampa, di
abolizione della pena di morte. Di lui qualcuno scrisse:
“Brofferio e compagnia si
dan tra lor del ladro e della spia. Altro sul conto lor non vi so dire che li
credo incapaci di mentire.”
E scrive
Carlo Dossi:
“Vittorio (Emanuele) amava personalmente l'oratore Brofferio, altro gran chiavatore,
cui domandava e quante volte facesse e come ecc. con quell' interesse con cui
stava al corrente delle sorti d' Italia. Brofferio gli faceva poi da araldo e
pacificatore colle nuove e vecchie amorose…”
Ci piace ricordarlo con tre
strofette di una sua poesia in dialetto:
Slarghè pur tute le pàgine
'd col gran lìber mal ciadlà
che an sla tèra e che an sl’océano
Dòmne Dei a l’ha stampà:
pì lo guarde, pì lo médite,
pì lo vòlte ’n su e ’n giù,
pì 'v acòrze d’esse 'd ràcole,
pì 'v conòsse 'd fòj-fotù.
Da una part i vëdde d’nùvole
'd citi pòpol, 'd citi rè,
ch’as ciapulo, ch’a s’anìchilo,
e saveiss-ne almanch përchè!
Ël furor as ciama glòria,
Ël delit as dis virtù,
e l’onor a pianta fàbrica
da bindej p'r ij fòj-fotù.
Con un’aria diplomàtica
guardé coj dël pòrta-feuj
con la sàussa dla polìtica
a fé ‘l bàlsam d’ògni ambreuj
l’onestà, la fede pùblica
l’han venduje al feramiù,
e a distilo ‘l ben dla patria
al lambich dij fòj-fotù.
Voltate pure tutte le pagine di quel gran mal fatto libro
che sulla terra e sull’oceano Domine Iddio ha stampato.
Più lo leggete, più lo meditate, più lo voltate in su e in giù,
più vi accorgete di non contare niente,
più vi rendete conto di essere dei fessi fottuti.
Da una parte vedete nuvole di mediocri popoli, di mediocri re
che si fanno a pezzi e si distruggono e almeno saperne il perché.
Il furore si chiama gloria, il delitto virtù
e l’onore impianta una fabbrica di decorazioni per i fessi fottuti.
Con aria diplomatica guardate i potenti dell’economia
che con la salsa della politica preparano il balsamo di ogni imbroglio.
L’onestà, l’ideale del bene pubblico l’hanno venduti al ferrivecchi
e distillano gli interessi della patria con l’alambicco dei fessi fottuti.
E poi, è vero, ci sono anche i
vini, elenco infinito, lungo, giusto per citare fra i millanta nomi: Nebbiolo, Barolo, Barbaresco, Dolcetto,
Barbera, Moscato, Asti spumante… quei vini che, nel secondo dopoguerra,
trasformarono una terra di miseria, povertà infinita, emigrazione, mortalità
per fame, quelle colline che si erano svuotate di persone, in un ricchissimo
feudo di coltivazioni dotte e colte, che l’hanno risollevata da un destino
infame. Colline che nascono dal mare, un tempo lì era tutto acqua, ancora oggi
dissodando capita di trovare conchiglie. Ma come parlare di vini in modo
asettico? Come dirne particolarità e caratteristiche per chi enologo non è? Il
profumo di quei vini, il loro sapore che esplode quando lo bevi, noi umanamente
ed umilmente “consumatori” non esperti (come lo scrutatore non votante di una
canzonetta), lo leghiamo ai ricordi, a
quella mano sfiorata, a quella risata con gli amici, a quel panino con il
salame mangiato un pomeriggio invernale in una bettola fra cielo e vigneti. I
mulini non erano bianchi, allora, però c’era nell’aria voglia di nuovo, di
ribaltare lo stato delle cose e trasformare l’universo mondo in qualcosa di
etico e vivibile. Poi passa… Poi è passato.
Sono rimasti i testardi
piemontesi, un po’ chiusi, un po’ orgogliosi, a volte nostalgici. Rimangono
alcune piccolissime osterie dove puoi mangiare fritto misto alla piemontese e
bere vino sfuso “che abbiamo fatto noi”. E può succedere, mi successe qualche
anno fa, di andare in una frazione chissà dove nell’astigiano, entrare
nell’unico locale aperto, una sorta di negozietto bar, successe di chiedere “un
caffè” e la signora me lo fece, con la moka sul fornello.
Nessun commento:
Posta un commento