Trivellazioni
in mare, ne abbiamo parlato con Maria Rita D’Orsogna, abruzzese, che lavora
come Associate Professor Mathematics Department California State University at
Northrigde Los Angeles, CA.
Il
governo italiano (Gov.Berlusconi poco prima di franare e lasciare il campo a Monti. N.d.r.) ha dato concessioni per le trivellazioni in mare per ricerche
petrolifere, ha senso spingere in questa direzione anzichè nella ricerca di
energie alternative?
E’
ovvio che no, ma non soltanto perchè il futuro dell’energia è nelle fonti
alternative – solare in primis – ma soprattutto perchè il petrolio che abbiamo
in Italia è di qualita’ scadente, posto in profondità e non presente in grandi
quantità. Il petrolio italiano non cambierà di una iota lo scenario energetico
nazionale ma servirà solo per arricchire chi lo estrae. Basti pensare che il
più grande giacimento europeo si trova in Basilcata e produce solo il 6% del
fabbisogno nazionale italiano. Questo vuol dire che se vogliamo restare
ancorati al petrolio, volenti o nolenti, continueremo a importarlo dall’estero
a lungo. La Northern Petroleum stima che il petrolio presente nei mari di
Puglia e’ pari a circa 50 milioni di barili – quanto basta all’Italia per un
mese. Il gioco vale la candela?
In
più il petrolio italiano in genere è “amaro e pesante” cioè carico di impurità
sulfuree e le cui molecole non sono della lunghezza giusta per farci la
benzina. Il petrolio migliore del mondo è dolce e leggero – tutto il contrario
del nostro, che risulta particolarmente inquinante e che necessita di speciali
trattamenti per eliminare lo zolfo. La maggior parte delle concessioni di cui
si parla oggi arrivano dopo sondaggi gia’ eseguiti 40 o 50 anni fa. A suo tempo
si decise che, a parte speciali situazioni come Cortomaggiore (Piacenza),
poiche’ il petrolio italiano era di qualita’ pessima non era conveniente
estrarlo, e si preferi’ importarlo dall’estero. Oggi c’e’ questo revival di
petrolio italiano perche’ la materia prima inizia a scarseggiare, c’e’ molta
piu’ competizione da parte di cinesi e indiani, anche per quello che l’ENI ha
definito in mia presenza “il fondo del barile”. E siccome siamo nel mondo
globale e ipervelocizzato, c’è molto da speculare anche da petrolio cosi
scadente come quello italiano.
Quale
impatto ambientale provocheranno le trivellazioni?
Quello
a cui non sempre si pensa è che per trivellare e poi estrarre petrolio occorre
iniettare grandi quantita’ di “fluidi e fanghi” perforanti nel sottosuolo,
saturi di inquinanti, a volte di materiale radioattivo e cancerogeni. Si stima
che nell’arco della sua vita – di 30 o 40 anni – una piattaforma marina produca
circa 90 mila tonnellate di questi rifiuti classificati come speciali e
tossici. In teoria queste sostanze dovrebbero essere smaltite in maniera
ottimale, nella realta’ spesso finiscono in acqua: lontano dagli occhi della
gente. E questo non solo in Italia, ma in tutto il mondo, lo fanno anche in Norvegia,
ed il governo norvegese lo ammette chiaramente: tutte le operazioni petrolifere
causano inquinamento all’aria all’acqua e ai fondali marini.
Ci
sono anche da considerare perdite “lievi” ma cumulative nel tempo che certo non
contribuiscono alla salute del mare. Si calcola che nel golfo del Messico una
piattaforma rilasci idrocarburi in mare per incidenti piu’ o meno contenuti una
o due volte l’anno. E tutti questi inquinanti, rilasciati per sbaglio o per
scelta non possono che influenzare la vita marina negativamente. Uno studio
svolto vari anni fa dal governo USA – detto Goomex – mostrò alte concentrazioni
di mercurio nei pesci catturati vicino alle trivelle. I petrolieri amano
anche ripetere che ai pesci le piattaforme piacciono e che spesso si pesca piu’
abbondantemente vicino alle piattaforme marine. E questo è vero, ai pesci piace
la protezione offerta dalle strutture metalliche in mare, ma la domanda e’:
considerati i riversamenti accidentali o volontari vicino alle trivelle, che
pesce stiamo mangiando? Ovviamente ci sono poi da considerare i rischi di
scoppi e le conseguenze a lungo termine sull’ecosistema di questi scoppi
– il territorio, il mare, non dimenticano tanto facilmente. Basti pensare
allo scoppio del pozzo BP in Louisiana un anno fa. A distanza di tanti mesi ci
sono ancora forti problemi ambientali, ogni tanto si scoprono nuove macchie di
petrolio in mare, ci sono state morie di delfini dopo un anno dallo scoppio.
Guardando ancora più indietro nel tempo, il disastro della Exxon Valdex in
Alaska di oltre 20 anni fa ha portato all’estinzione di alcune specie ittiche e
al crollo di tutta l’industria della pesca nella citta’ di Cordova, una delle
più vicine al punto di scoppio della petroliera. Sono eventi rari, certo, ma
una volta che accadono portano con se conseguenze drammatiche e a lungo
termine.

La
Northern petroleum ha chiesto ed ottenuto di fare indagini sismiche al
largo di Santa Cesarea Terme, questo significa scaricare vere bombe d’aria in
mare, flora e fauna marina avrebbero un impatto importante con danni per la
pesca e l’ambiente?
Le indagini sismiche si svolgono con la tecnica dell’
air-gun – ogni 5 o dieci minuti ci sono violenti spari di aria compressa che
mandano onde riflesse da cui estrarre dati sulla composizione del sottosuolo.
Questi spari sono dannosi al pescato, perché possono causare lesioni ai pesci,
in particolare la perdita dell’udito, e con esso il senso dell’orientamento, la
possibilita’ di trovare altre specie per accoppiamento e per trovare cibo. In
provincia di Foggia ci sono stati degli spiaggiamenti con sette capodogli morti
a Peschici che secondo una equipe internazionale potrebbe essere stata causata
da questa tecnica. Ma il problema va molto oltre le ispezioni sismiche. La
Northern Petroleum non viene in Italia per sondare il fondale marino per amore
della conoscenza. La Northern Petroleum viene in Italia perchè vuole estrarre
petrolio. Le ispezioni sismiche sono solo il primo passo e se non vogliamo la
Puglia petrolizzata, occorre fermare il “mostro” da subito, senza indugi,
perche’ passate le ispezioni sismiche chiederanno di trivellare il pozzo
temporaneo, e poi quello permanente. Che ne restera’ dell’Adriatico cosi come
lo conosciamo ora?
La
N.P. ha comunicato nuove concessioni per il Salento gentilmente offerte
dalla ministra Prestigiacomo, a questo punto la Puglia è tutta coinvolta,
potremo parlare ancora di territorio a vocazione turistica?
A
questa domanda occorrerebbe rispondere mettendosi nei panni del turista medio:
chi vuole venire in vacanza a vedere piattaforme, raffinerie, petroliere e
oleodotti? A sentirne la puzza?Qualcuno dall’Italia pensa mai di andare in
vacanza nei mari Texani? O in quelli dell’Alabama? No, perche’ quelle aree sono
fortemente petrolizzate e il mare ne soffre, in qualita’ e in bellezza.
L’industria del petrolio non nasce e non si sviluppa nel vuoto ma porta con se
infrastruttura pesante di appoggio. Dove lo raffiniamo il petrolio del Salento?
Costruiamo una raffineria in riva al mare? Che porto petrolifero usiamo? E le
petroliere dove le laviamo? Sopratutto, una volta arrivati i petrolieri sono li
per restarci e per ingrandirsi. Avanzeranno altre concessioni, vorranno
allargarsi, vorranno costruire altre raffinerie. E’ un lento ma inesorabile
processo di vera e propria colonizzazione ed e’ per questo che occorre fermarli
all’inizio, e non dargli nemmeno un centimetro di terra o di mare. Nulla e’
sacro per i petrolieri, e ancora di meno quando sono ditte straniere che
dell’Italia non sanno niente. Per loro non siamo Puglia, Abruzzo o Venezia con
le nostre peculiarita’ turistiche. Siamo puro business. Tant’è vero che sui
loro siti si mostrano sempre mappe petrolifere senza alcuna citta’, senza alcun
riferimento geografico a cosa gia’ esiste sul territorio. Si limitano sempre a
dire che le loro attività avranno “impatti nulli o trascurabili” quando invece
centinaia di studi in tutto il mondo parlano di forti impatti sull’ambiente da
parte dell’industria del petrolio. Per avere un idea di come pensano i
petrolieri, basta guardare la citta’ di Ortona. Nel 2007 l’ENI aveva deciso di
trivellare un campo di petrolio fra i vigneti del Montepulciano doc e di
costruire una raffineria fra i campi, come avevano fatto gia’ fatto negli
anni ’90 in Val D’Agri in Basilicata. Hanno insistito a lungo che “tutto si
poteva fare” e che petrolio ed agricoltura sono compatibili. Nessuno gli ha
creduto per fortuna. Allo stesso modo hanno preso di mira le isole Tremiti, la
laguna veneta, la Val Di Noto. Il Salento non sara’ diverso per loro perche’
non ne sanno niente e non gli interessa che li vivono persone, che noi andiamo
al mare li, che vogliamo il mare blu e non le trivelle.
Lei sostiene nel suo blog che
le compagnie petrolifere si possono fermare. Come?
Sicuramente
con l’informazione, con un maggior attivismo da parte dei cittadini, e con la
pressione sui nostri politici. Occorre che il cittadino medio abbia la voglia
di sapere e di informarsi, non solo se gli vengono a trivellare sotto casa ma
anche, ad esempio, di quello che succede nella martoriata Basilicata perche’
siamo una nazione sola. E una volta che si e’ a conoscenza del problema,
occorre martellare incessantemente la classe politica ad agire nell’interesse
comune. Non e’ accettabile che tutte le concessioni petrolifere di Puglia si
siano “scoperte” quasi per caso – alle Tremiti, in Salento – l’hanno scoperto
persone vedendo strane attrezzature in mare, oppure, come è successo a me che
mi sono imbattuta casualmente nei comunicati agli investitori della Northern
Petrolum da oltre oceano. A Brindisi se ne sono accorti il giorno prima che le
trivelle partissero. Occorre allora informarsi e poi darsi da fare, tutti i
giorni. Basta solo guardare com’e’ finita la storia del centro oli di Ortona:
l’ENI lo considerava un progetto di punta, aveva tutti i permessi pronti, il
presidente della regione Abruzzo Ottaviano del Turco e il sindaco di Ortona,
Nicola Fratino erano favorevoli, l’assessore all’ambiente Franco Caramanico
aveva detto che si trattava di una occasione che l’Abruzzo non poteva perdere,
e le trivelle erano pronte per partire. Avevano detto si anche Bersani, Di
Pietro e Pecoraro Scanio. Invece grazie all’informazione, all’attivismo intelligente
dei cittadini siamo riusciti a scongiurare il tutto. Per mesi ed anni abbiamo
continuato a martellare la classe politica, facendo diventare il tema del
petrolio uno dei piu’ importanti della campagna elettorale. Siamo riusciti
anche a sconfiggere alcuni pozzi a mare d’Abruzzo – della Petroceltic e della
Mediterranean Oil and Gas -sebbene l’attuale presidente della regione Gianni
Chiodi non si mostri particolarmente interessato alla faccenda. Il tutto
perche’ noi cittadini l’abbiamo fortemente voluto e piu’ dei petrolieri e
di alcuni politici corrotti.
Lei scrive: “Le estrazioni di petrolio non hanno
portato ricchezza a nessuna comunità estrattiva, in nessuna parte del mondo.
Basti solo pensare che lungo le coste est ed ovest degli Stati Uniti il limite
per le trivelle è di 160 km da riva e qui vorrebbero completare operazioni
petroliere a si e no 20 km da riva. Il governo parla invece di forte giro di
denaro per gli italiani, in particolare per i territori coinvolti.”
Da come la vedo io, questa e’ pura propaganda. Non
occorre guardare lontano per capirlo: come gia’ detto, la Basilicata e’ il piu’
grande campo petrolifero d’Europa. Quando i petrolieri – ENI e Total –
arrivarono circa 15-20 anni fa promisero mari e monti, proprio come quando oggi
si dice che il petrolio porta ricchezza. Forse la porta ai petrolieri, ai
politici collusi, agli investitori. Di certo non ai territori, ai quali i
petrolieri lasceranno solo inquinamento e briciole. Dopo 15 anni di trivelle
infatti, la Basilicata e’ ancora la regione piu’ povera d’Italia, trovano
petrolio nel miele, le dighe sono inquinate di idrocarburi, compresa la diga
del Pertusillo da dove arriva l’acqua dei pugliesi, alcune sorgenti idriche
sono state chiuse, contaminate da idrocarburi, seppelliscono immondizia tossica
petrolifera nei campi e trivellano nei parchi. Vigneti, meleti e campi di
fagioli sono rovinati. I tumori aumentano e cosi pure la disoccupazione e
l’emigrazione.
Ora
in Basilicata si parla di un potenziale raddoppio delle trivelle – e quindi
raddoppio di inquinamento e problemi. E cosa lasciano ai territori? Il dieci
per cento dei ricavati – da dividere fra regione, provincia e comuni – e una
“bonus card” di 90 euro l’anno per ogni cittadino patentato. E’ questo che
vogliamo per l’Italia? Per il Salento? Per il 6% del fabbisogno nazionale di
petrolio?