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sabato 11 febbraio 2012

Piacere, Paolo









La storia attraverso i manifesti elettorali. Qualcuno ancora ricorda il terrore della DC per i Cosacchi che stavano arrivando ad abbeverare i cavalli a San Pietro. Poi la guerra fredda proseguiva, arrivava il ’68 e la fantasia andò al potere. Così fra elezioni e referendum i “creativi” lavoravano sodo. E’ del 1976 lo sciagurato manifesto bianco del PLI che vediamo sotto. Nella parte lasciata in bianco ognuno poteva scrivere il motivo che lo spingeva a tale voto. La meno blasfema è quella sul manifesto in fotografia. Lasciamo all’immaginazione di chi legge il resto.









A proposito di referendum, quello contro la famigerata legge Reale (1978) che voleva incarcerare per motivi di “ordine pubblico” i gruppi superiori a tre persone, o che si rendessero colpevoli di corsa per le strade, ecco un esempio brillante di ironia:







Nel 1979 invece ecco riapparire i monarchici. Dite che erano fuori tempo? In realtà si ritenevano avanti nel tempo, invocavano nientepopodimenoche la monarchia europea. Immaginate la Merkel regina d’Europa?  









E sempre nelle stesse elezioni (amministrative a Milano 1979) i monarchici avevano un concorrente temibilissimo, il paracadutista Zini, neppure a dirlo del MSI. Non riuscì a mettere il paracadute.














E’ del 1980 l'ironia dilaga ricordando i cavalli in Piazza San Pietro. A leggerlo adesso che in Afghanistan c’è il   mondo intero, si sorride. Peccato per i bambini massacrati. 















E veniamo all’attualità. Italia UNOOOOOOOOOOOOOO dice un ironico manifesto con il faccione del Valter che non aveva capito cosa stesse succedendo e ci ha traghettati in un triennio fra i peggiori della storia repubblicana.

                    
                                                 







Ora il PD si è rinsavito ed ha le idee chiarissime, esce in fatti con                      
                                                 ineffabile:
Chi sia Faruk rimane un mistero per la quasi totalità degli italiani, così a Lecce non si vuole incorrere nello stesso errore ed ecco: Piacere Paolo (senza virgola si presta a due letture). Piacere… Ma de che?






Ma siamo nel regno del virtuale, così su facebook compare 






Emergency

Emergency chiede un contributo 


per curare bimbi afghani colpiti dalla 

guerra. 

Il ministro della difesa italiano chiede carta 

bianca per bombardare l'Afghanistan. Chi dei 

due è il più incivile?

Calamandrei sulla scuola pubblica 11 febbraio 1950

Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime... Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere . C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi, ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.



Piero Calamandrei, 11 febbraio 1950

venerdì 10 febbraio 2012

la politica senza aggettivi

Perché è così complicato riuscire a raccapezzarsi nella politica attuale? Più me lo chiedo e più mi dico che è meglio occuparsi d’altro. In questi giorni lo stimolo è ancora più grande, sembra tutto in disfacimento, la caduta delle ideologie tanto decantata da troppi ha lasciato un inquietante vuoto. Sarà che la terza (quarta?) età mi inibisce dal comprendere e dall’attualizzarmi. Il mercato con i suoi primati su tutto, persone comprese, non mi capacito. Il non essere qualcosa di definito, di aggettivato è un non sense. Aggettivazione, appunto, ne parlò il Prof. Carducci, illustre costituzionalista, studioso e docente in Lecce, qualche tempo fa. Un tempo (ahi ahi la vecchiaia) c’erano i partiti, ognuno con il suo aggettivo, capivi al volo di cosa si stava parlando. C’era il Partito Italiano che era Comunista. C’era quello Socialista. Poi c’era un Partito della Democrazia Cristiana, a tutto vantaggio di quel sacerdote che nel ‘48 dal pulpito istigava “votate un partito democratico, ma che sia cristiano”, c’era quello Liberale, c’erano anche gli impresentabili, il PDIUM dei monarchici e il MSI che non poteva aggettivarsi come avrebbe voluto, il PNF è anticostituzionale. Possiamo addirittura dire che inventò la seconda repubblica ante litteram, Movimento Sociale Italiano, cosa di più subdolamente trasversale dell’essere Movimento e anche Sociale? E’ un po’ come dire Popolo della Libertà o Partito Democratico, giusto per capire.
In sostanza, un tempo chi aderiva ad un partito aveva un ideale di riferimento, che non era solo ideologia, ma un modello possibile di mondo, aveva dei filosofi di riferimento, studi, le differenze erano sostanziali. Oggi, anche nei residui casi di aggettivazione,  chi osa dichiararsi non democratico (o antidemocratico) come un tempo si dichiarava anticomunista? E sfido a dichiararsi per il Popolo delle Schiavitù, o delle Non libertà.
I risultati di questa caduta verticale di appartenenza si respirano ancora più forti nel governo attuale, guidato da un uomo delle banche e antropologicamente impolitico (artatamente in realtà, i vecchi schemi lo avrebbero schierato a destra senza possibilità di discussione), sostenuto da quelle ex sinistre che sembrano non avere ideologie di riferimento, ma neppure un partito vero e un programma, e mancano addirittura di coesione al loro interno e dalle destre più o meno estreme che si chiamano in altro modo.
A meno che abbia ragione, e me ne sto convincendo sempre più, chi dice che l’Italia è divisa fra due destre, una ufficiale che ha raccolto tutto il pattume del neofascismo e del populismo, ed una forse più aperta, ma che accetta senza controbattere i fondamentali del mondo governato da banche e banchieri. Ed alcuni suoi esponenti si spingono fino a cavalcare tigri di ogni colore, è di questi giorni l’estemporanea uscita del presidente del PD pugliese, Michele Emiliano che dice: «Considerate me e la mia amministrazione come politicamente alternativa al progetto politico del centrodestra. Non è così, nel contenuto e neppure nello stile politico» e ancora: «Io e la mia amministrazione non assomigliamo in nulla a un’amministrazione della sinistra radicale o del modello padano (Penati-Del Bono) o peggio romano (Rutelli-Veltroni). Non siamo alternativi al progetto politico del centrodestra. La mia è la stessa strategia di Pinuccio Tatarella».  (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/politica/2012/8-febbraio-2012/emiliano-fa-outingnon-sono-sinistra-1903192737069.shtml).
Sarà un clamoroso autogol del sindaco di Bari? O piuttosto un velato tentativo di dire che si, è vero, ci sono due posizioni politiche, però sono sovrapponibili? In entrambi i casi è evidente che in un partito post ideologico chiunque può entrare senza neppure chiedere permesso. Mancanza di idealità diverse e caduta degli aggettivi vanno a braccetto?
Pare un discorso atipico (antipatico?) fatto nei giorni in cui molti si spingono a esaltare il loro “non essere né di destra né di sinistra, ma per il buon governo”. Capiamoci, quale significato diamo alle parole “buon governo?” Certo non è quello che consente oltre 40 morti per un’ondata, sia pure anomala, di freddo.  O forse è il caso di chiedersi che significa dirsi di centro destra o di centro sinistra? E qui nascerebbe il problema di un centro talmente dilatato da poter stare ovunque, come leggermente (a parte la corpulenta mole) ovunque sta il sindaco Emiliano.
Il partito di Vendola è riuscito in un colpo solo a mettere assieme tre sostantivi: Sinistra, Ecologia e Libertà.  Diamo atto che la parola sinistra è detta, vanificata, ahimè, da quel Vendola scritto sotto, più grande delle altre. Il partito di Di Pietro, quello di Vendola, quello di Berlusconi ecc. Ma i partiti delle persone, dei militanti (altra parolaccia) che scelgono per fede, per amore, per vocazione o per ragionamento come votare, dove diavolo stanno?  Il popolo delle primarie, chiamato ad esprimersi e poi dimenticato per cinque anni, quello che è orfano di sezioni, di luoghi di aggregazione, di possibilità di interloquire, dove lo mettiamo? siamo nella repubblica della delega, e se i delegati sono proni ai voleri delle banche e perdono il contatto con la realtà?
Forse è vero, arrivando a non capire più come funzionano le cose è meglio farsi da parte e lasciar commentare chi sa. Altrimenti dibattiamo parlando di aria fritta, di ideologie, di destre, sinistre. Va a finire che qualcuno mi dice che sono un rottame. O, peggio, che ci fanno digerire il governo tecnico come la panacea di tutti i mali. Se poi abolisce l’articolo 18 è perché può osare tutto ciò che non ha fatto Berlusconi, se penalizza le pensioni e non mette le patrimoniali, va tutto benissimo perché questo è “il buon governo” per antonomasia.
Come se sessant’anni di politica ci avessero consegnato solo ed esclusivamente l’incapacità di fare welfare, di dire di solidarietà, quasi fosse diventato un obbrobrio dire di tagliare privilegi ai ricchi e alle caste per dare ossigeno a chi non ha nulla. Non ci fossero i sindacati (neppure tutti) a tenere duro, forse saremmo tutti quanti nella china di chi considera la solidarietà sociale come carità. Mah, probabilmente ho un concetto sbagliato di democrazia. Forse quel “prendere ai ricchi per dare ai poveri” è esageratamente legato a visioni da Robin Hood, piuttosto che da residuali ideologici da rottamare. “Non è più il ’68, c’è il bipolarismo, c’è lo spread e c’è il PIL. Svegliati, non fare il vecchio rincoglionito.” Mi sembra di sentirlo dire dagli amanti del governo bello perché apolitico.
In questa situazione da tragedia hanno ampie possibilità ed opportunità i peggiori. Cota vince, magari con la frode, le elezioni in Piemonte, immediatamente taglia i fondi alle borse di studio universitarie penalizzando, oltre che i suoi prediletti nordici, anche ampie fasce di studenti del sud che non avranno opportunità di frequentare il Politecnico. Il governo Monti parla di fare uno spread per le università: chi studia a Torino avrà più opportunità di chi si laurea a Cagliari. E io che pensavo che la scuola fosse per tutti un diritto. Una volta si chiamava “pubblica istruzione”.   Dall’altra parte il movimento cinque stelle (a proposito di partiti personalisti, qualcuno conosce un nome diverso da quello dell’ex comico genovese come dirigente di quel movimento?), a Legnano il candidato sindaco grillino se ne esce con uno scoop protoleghista dicendo grosso modo: - via i campi rom, li manderemo nelle città vicine. Il loro DNA non consente di stare con noi. - Si può pensare che sia uno studioso del DNA, più mestamente ritengo si tratti di un mentecatto semianalfabeta vicinissimo ad un pensiero borgheziano e  filoxenofobo.  Prenderà certo molti voti quel signore.
Questi sono i frutti più avvelenati della seconda repubblica e della caduta delle ideologie. La mancanza di aggettivi è anche questo, tutto sommato. Cinque stelle, lega nord, ma cosa diavolo sono? Da dove arrivano? Dove vogliono andare? Quale disegno di società hanno? Non sappiamo più cosa siamo e possiamo essere ogni cosa.
Oggi essere attenti è cosa che pare non riguardare più i partiti appiattiti sul governo tecnico, ma la rete. Se le uscite sui giovani bamboccioni le avesse fatte un qualunque componente del governo del Peggiore le mura del parlamento avrebbero tremato (poco poco, ma lo avrebbero fatto), se le dicono Monti e i suoi si ammicca. Per fortuna c’è la rete, per fortuna i bamboccioni leggono e imparano. E mi chiedo se essere leali ad un governo vuol dire deglutire ogni porcata, oppure, più mestamente, tacere perché “qualcuno dice le cose che penso ma non posso dire”. Uniti tutti quanti, seduti a destra o a sinistra nell’emiciclo.
Ora siamo in attesa di sapere nei prossimi giorni se passerà la linea del ministro della difesa attuale che vuole carta bianca per bombardare l’Afghanistan (“Spezzeremo le reni ai talebani”) o se l’Italia starà nei limiti imposti dalla Costituzione. E aspettiamo di sapere se l’acquisto degli F35, operazione iniziata dal governo D’Alema e portata avanti da tutti quanti, proseguirà anche in tempi in cui si chiedono lacrime sangue e parti anatomiche diverse ai pensionati o se finalmente si dirà basta. Temo che la risposta sia da temere, il governo attuale è adorato come non è mai successo in tempi di democrazia funzionante ed ha carta bianca. Come scrivevo in altre pagine tutti dicono che Monti è educato e si comporta bene, lo chiameremo il Tassator cortese?
Diciamo però che sento lodi sperticate a questo governo soprattutto da chi ha il futuro iper garantito, da chi ha pensioni sicure e neppure troppo basse. Succede spesso di parlarne. Un po’, confesso, mi inquieta.
Finisco invitando la lettura di un pezzo di Gramellini, quelli sella serie: “ma perché non l’ho scritto io?”:


giovedì 9 febbraio 2012

aborti...

questa l'ho trovata su facebook


Incredibile: d'inverno fa freddo


Giorni di gelo artico, allora impariamo a comportarci per bene. Vediamo le lezioni che ci ha impartito il generale inverno.
Primo insegnamento: in inverno fa freddo. Da tre settimane tutti i media danno la notizia dell’arrivo del grande gelo, e lo fanno con enfasi, quasi fosse la sola notizia degna di nota. Chi se ne frega della disoccupazione o dello spread che è passato di moda. A proposito, siamo in grado, unici in Italia, di anticipare i titoli dei giornali del luglio prossimo: “Fa caldo”. Inquietante l’omologazione di comportamenti suggeriti. Irrilevanti: gli anziani è meglio che stiano tappati in casa, in inverno per il freddo, in estate per il caldo. Possono uscire in aprile e in settembre. Se proprio vogliono in luglio e agosto possono andare al supermercato, come insegnano ex ministri. Per i bambini è la stessa cosa. In strada possono andare solo quelli di mezza età.
Secondo insegnamento: In caso di neve, anche solo pochissimi centimetri, evitare di prendere il treno perché si bloccano tutte le linee. Evitare l’auto perché sul ghiaccio sbanda. Evitare i bus pubblici perché non hanno catene. A piedi camminare con moltissima cautela. Però il PIL ha le sue regole e a lavorare si deve andare ad ogni costo. Come? E cosa rompete! Il governo ha altro da fare, arrangiatevi!
Terzo insegnamento: Gli abitanti di Roma se ne vadano altrove quando nevica, se i tecnici e il sindaco non sono capaci di leggere i comunicati della protezione civile e se pensano che il sale sui marciapiedi e sulle strade si mette come sulle insalate, a pizzichi, vuol dire che qualcosa non funziona a dovere. E poi lo dice Alemanno: “gli alberi romani cadono perchè non sono abituati ala neve” (sic) e ancora: "qualcuno usa l'emergenza neve perchè non vuole le olimpiadi a Roma”, Olimpiadi a Roma? Ma per favore, di soldi alle mafie ne stiamo già pagando troppi.
Quarto insegnamento: Bruno Vespa non può fare il plastico dei singoli fiocchi di neve e la cosa lo innervosisce moltissimo.
Quinto insegnamento: la Lega Nord chiede di utilizzare gli immigrati per spalare, previo incatenamento alle caviglie che li unisca per scongiurare pericolose evasioni e soprattutto per poterli imbarcare non appena l’emergenza sarà finita.
Sesto insegnamento: Incredibile ma vero, ascoltavo in TV uno della Protezione Civile che ha detto testualmente: “La neve occorre spalarla appena cade”. Eh se lo sapevamo prima ci saremmo dotati di secchielli per intercettare i fiocchi svolazzanti.
Sesto insegnamento: Non nevica più, però non fate i furbi che venerdi nevica di nuovo. 
Ultimo insegnamento (il più drammatico): sono oltre 40 i morti per freddo nel paese dello spread e del pil, dei bamboccioni e dei partiti che non trovano più 13 milioni di euro. No, freddo o non freddo, non siamo in un paese civile.

mercoledì 8 febbraio 2012

Beni confiscati a Lecce



Dopo la conferenza stampa di Carlo Salvemini che faceva il punto sui beni confiscati alle mafie a Lecce, abbiamo sentito Attilio Chimenti dell’associazione Libera, che si occupa delle loro assegnazioni.

Facciamo il punto, a chi vengono assegnati i beni e con quali criteri?

I beni confiscati in via definitiva con decreto dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione sono “mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile e per altri usi governativi o pubblici connessi allo svolgimento delle attività istituzionali di amministrazioni statali, agenzie fiscali, università statali, enti pubblici e istituzioni culturali di rilevante interesse” come dice la legge. Oppure “trasferiti per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, al patrimonio del Comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della Provincia o della Regione”.
Noi ci occupiamo di immobili, per le aziende il problema è complesso.
I beni assegnati ai Comuni, che ne diventano titolari e possono amministrarli direttamente o, con convenzione, assegnarli a titolo gratuito a comunità, enti, associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti, associazioni di protezione ambientale riconosciute. Il tutto nella massima trasparenza.  

Tutto limpido allora, le amministrazioni rispondono?

Non sempre. Passato un anno senza esiti, l’Agenzia ne rientra in possesso o nomina un commissario ad hoc. In alcuni casi i beni possono anche essere messi in vendita, controllando però che non rientrino in possesso, magari per interposta persona, dei precedenti proprietari. Come Libera noi cerchiamo di fare in modo che le assegnazioni siano fatte attraverso bandi pubblici o concorsi di idee.

attilio chimineti
Quanti sono i beni confiscati in provincia di Lecce?

Secondo i dati aggiornati al 9 gennaio 2012 sono 116 immobili e 27 aziende. I primi sono suddivisi in: immobili in gestione, destinati e consegnati, destinati e non consegnati, usciti dalla gestione. Quelli destinati e consegnati, su cui lavoriamo, per la provincia sono 71. A Nardò, per dire della prima città dopo Lecce per abitanti, esiste un solo immobile commerciale non ancora assegnato, penso si tratti di un ristorante sulle marine.    

 Quanti e di quale tipologia i confiscati nel Comune di Lecce?

42 immobili e 12 aziende. Dei primi quelli assegnati al Comune sono 27. Si tratta prevalentemente di alloggi, pochi i locali commerciali e i terreni. La classificazione è fatta dall’Agenzia nazionale, occorre però capire caso per caso, di che dimensioni stiamo parlando. Purtroppo pochissimi sono i beni assegnati e riutilizzati. Per alcuni  si stanno seguendo dei finanziamenti regionali o nazionali. Questo non è un problema solo di Lecce ma vale per la quasi totalità dei comuni pugliesi.

In una conferenza stampa Carlo Salvemini denunciava il fatto che non si conosce nulla di questi beni nel territorio comunale

Giusta considerazione purtroppo non solo leccese. La legge anche in questo caso è chiara: “Gli enti territoriali provvedono a formare un apposito elenco dei beni confiscati ad essi trasferiti, che viene periodicamente aggiornato”. Quindi reso pubblico con tutti i dati, compreso, in caso di assegnazione, gli identificativi degli assegnatari.  Ogni Comune dovrebbe adeguarsi, inoltre tutti noi, in forma singola o associata, possiamo chiedere di conoscere quali siano i beni confiscati presenti sul territorio e, nel caso, chiederne l’assegnazione.

 Cosa dovrebbe fare un’amministrazione attenta?

Intanto adeguarsi alle nuove normative rendendo pubblici gli elenchi dei beni e trasparenti le assegnazioni. Deve inoltre sapere che può accedere a finanziamenti europei (pon sicurezza) per ristrutturarli e dovrebbe strutturarsi per controllare le procedure e le assegnazioni. Molti amministratori vedono i beni come oneri, anziché come opportunità. Si devono invece dare segnali forti. Un bene confiscato riutilizzato e gestito da giovani che crea opportunità di lavoro e meccanismi virtuosi sul territorio è il modo migliore per contribuire a sconfiggere il potere mafioso. In sostanza occorre  decidere di stare dalla parte giusta.

 Fra i vari utilizzi so di un Comune siciliano che li ha utilizzati per dare una casa a senza tetto.

Ci sono molti modi per riutilizzarli purché le finalità sociali siano chiare. E’ una scelta giusta e seguita in alcuni casi quella di darli a senza tetto.  Economia sana e fini sociali, appunto. Con il concorso di tutti però. 

martedì 7 febbraio 2012

Supermercati




E’ un giorno qualunque. E’ Lecce, ma potrebbe essere Torino o Genova, non importa. In certi luoghi c’è un’omologazione inquietante. Ricordo un ministro che consigliava agli anziani di andare, in estate, nei centri commerciali. C’è l’aria condizionata. E oggi il mio frigorifero è desolatamente vuoto. Potrei spacciarla come frutto della crisi che attanaglia. La realtà è altra, è vuoto e basta. Quando lo apro vedo l’acqua e quella superstite scatoletta di tonno tristemente sola. Sott’olio però. Allora entro nel regno dell’aria condizionata e della spesa. Tutto bello, colorato. Le cassiere tutte in fila. Qualcuna sorride affabile. Altre sono proprio avvilite, tristi. Sarebbe il caso di offrire loro un fiore, però non si fa. Passo fra i corridoi. Tonnellate di biscotti con o senza gocce di cioccolato. Con o senza glutine. Con il latte o con le mandorle. L’apoteosi, l’inno al diabete e all’obesità. Intanto penso ai tre o quattro tipi di biscotti che trovavo il secolo scorso, quando eravamo meno intelligenti e più bruttini. Come diamine facevo senza le ciambelline al cocco? O quelle ripiene di crema di limone? O quelli integrali e ricchi di fibre? Mistero.  Però quelli integrali non li compero mai, sanno di segatura.
Proseguo indifferente per la mia strada. Duecento metri quadri di pasta incombono. Se frana uno scaffale rischio il soffocamento da fusilli, o di venire trafitto da spaghetti numero 5. Pasta all’uovo, senza uovo, con farina altoatesina o trafilata in bronzo. Roba da perdersi.  Poi la trincea di assorbenti. Devono procurare molta felicità alle signore, sono tutte con smaglianti sorrisi su quelle confezioni. Poi i pannoloni per bambini. Almeno otto tipi diversi. E tutti sono “morbidissimi”.   “Notizia assolutamente idiota” mi dico “se li rivestissero di carta abrasiva non li venderebbero mica”. Lì vicino c’è la carta igienica.  Discorso delicato anche questo. Due veli, quattro veli o otto? Bel dubbio, mi accompagnerà per tutto il giorno. E io che ero abituato alla carta igienica e basta. C’è la confezione economica. Un metro cubo circa: “confezione famiglia”. Per famiglie molto numerose però.  O molto “produttive”.  Meglio scegliere  la confezione non famiglia. Avrei bisogno di un trasportatore per portarla a casa. Prendo in base al prezzo, senza curarmi degli optional: decorazioni, tinta, vellutata, morbida. Anche qui vale il discorso della carta abrasiva. Pare che alcune siano griffate da noti creativi. Nell’intimità del bagno, essere in compagnia di una nota griffe  rende tutto più leggero e facile forse. In effetti alcuni designer ... aiutano.
Poi passiamo ai formaggi, si va dal pregiatissimo montebora delle valli piemontesi, conservato in apposite casseforti e venduto a carati, si narra di pattuglie della mondialpol che scortano preziosi carichi di tome. E si arriva ai più normali e meno mistici gorgonzola, provolone e via dicendo. Ancora la scelta non è facilissima in realtà. Fra DOC, DOP, senza grassi aggiunti (ma chi diavolo aggiunge grassi ai già grassi formaggi?), ricco di qualche vitamina che pensavo inesistente, prodotto con latte di mucche che pascolano sulla prima montagna a destra delle Dolomiti. Conturbanti mozzarelle freschissime. Improbabili formaggi con i buchi. Addizionati con peperoncini o erbette, anche queste di montagna. Scelgo il solito, quello che prendo quasi sempre.  
Per il caffè non ho problemi. Evito quelli di montagna, quelli paradisiaci, quelli con i chicchi misurati uno ad uno da operatori laureati in ingegneria, quelli tostati con la brace di legname che arriva direttamente dall’Amazzonia, e prendo il solito. Non so bene se sia di montagna o di mezza collina, però ha un buon rapporto qualità prezzo. Poi è salentino. 
Ancora la frutta. Un’apoteosi di fragole grandi come pesche, pesche belle come mele, mele rose e lucide che neppure in lavatrice, banane di mezzo metro di lunghezza e poco oltre quelle “colte dall’albero” lunghe cinque centimetri ma care il triplo di quelle da mezzo metro. Poco prima ero passato vicino al reparto casalinghi. C’erano frutti finti “tanto belli da sembrare veri”. Qui invece sono veri, e belli, “sembrano addirittura finti”. Mi sto perdendo, non so distinguere il vero dal falso.
Comunque prendo qualcosa. Quelle albicocche grandi come pesche sembrano carine.
E mi sento parte della modernità. Pensate che una volta mangiavo fragole grandi come fragole. Roba da matti.
Passo poi fra il riso. Apoteosi dell’inquietante, osceno parboiled. Quello che ha una consistenza plasticosa. Non scuoce mai. Proprio come le albicocche che non maturano mai, passano dallo stato semi acerbo a marcire. Un risotto con i funghi fatto con quella roba lì è come un fiore finto profumato artificialmente.  Per fortuna nello scaffale in basso trovo il carnaroli. Questo si.
E va bene, passo in mezzo a quei seimila tipi di creme e budini che si fanno in “soli 3 minuti”, attraverso una cascata di cioccolato fondente, al latte, senza zucchero, fatto con cacao prodotto da Pancho, campesino guatemalteco che coccola uno ad uno i frutti, pare li battezzi anche. Quando uno viene caricato e trasformato in cacao, Pancho piange e dice alla moglie “guarda, Pedro se ne è andato”. Solo in questo caso sarebbe giustificato il prezzo.
Poi scelgo la cassiera che sorride di più. “Vuole una busta?” “Anche due, grazie”. “Ha la tessera?” “Tessera? No guardi, sono un elettore libero” “Quella del supermercato intendevo” “Ops, no, non ho la tessera ”. “Arrivederci e grazie”. Esco, incrocio una grassa signora che spinge un meraviglioso bambino nel passeggino che sorride a tutti. “Ha sicuramente pannoloni morbidi” mi dico trascinandomi verso l’auto. 


lunedì 6 febbraio 2012

Nostalgia del futuro


PEDAGOGIA DEGLI OPPRESSI (Le staffette)

Nostalgia del futuro. Ne parlò in tempi altri Paulo Freire (Recife, 1921 - 1997) Autore de “La pedagogia degli oppressi”. Grande pedagogista che stava dalla parte degli ultimi, che concepiva la pedagogia come strumento per superare barriere e dare una possibilità. Concetto alto di educazione insomma.
  [...]  Se gli uomini trasformano il mondo dandogli un nome, attraverso la parola, il dialogo si impone come cammino per cui gli uomini acquistano significato in quanto uomini.
Perciò il dialogo è un'esigenza esistenziale.  E se esso è l'incontro in cui si fanno solidali il riflettere e l'agire dei rispettivi soggetti orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare, non si può ridurre all'atto di depositare idee da un soggetto all'altro, e molto meno diventare semplice scambio di idee, come se fossero prodotti di consumo.

Emmaus (Universale economica)
[...]  Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo per il mondo e per gli uomini. Non è possibile dare un nome al mondo, in un gesto di creazione e ricreazione, se non è l'amore a provocarlo. L'amore, che è fondamento del dialogo, è anch'esso dialogo.

[...]  Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non amo gli uomini, non mi è possibile il dialogo.

[...]  Se il dialogo è l'incontro degli uomini per "essere di più", non può farsi senza speranza.

La speranza  in un futuro migliore, meno intriso delle diseguaglianze attuali. Un futuro da conquistare con la forza della conoscenza. In modo molto più rozzo e decisamente meno intrigante e con intenti neppure troppo diversi si diceva negli anni 70: “L’operaio conosce cento parole, il padrone mille, per questo lui è il padrone” .
Quindi Nostalgia di quel futuro. Una contraddizione in termini, un non senso? In fondo la nostalgia si ha delle cose che mancano ma che abbiamo conosciuto. E forse potrebbe essere anche questa una forma di saudaji.  Freire era brasiliano. Non penso sia un non senso, anzi, possiamo e forse dobbiamo averne “nostalgia” di quella possibilità in più.
Ne parlava anche  Baricco nella presentazione del suo libro “Emmaus”. Qui il significato era altro, talmente antitetico da essere anch’esso plausibile, quasi l’incontro di due opposti. Quasi nutella spalmata su creckers salati. L’adolescenza, secondo Baricco, è il momento più alto della vita. Qualcuno sostiene che dopo i vent’anni non possiamo che vivere di rendita. Tutte le esperienze le abbiamo incamerate nei primi anni, il resto è valore aggiunto. Negli anni tumultuosi dell’adolescenza siamo subissati da stimoli a crescere, a “prepararci un futuro”, talmente spinti da non renderci conto di quel che ci accade. Emmaus. La cena in cui i convitati non si rendono conto che l’altro commensale è il Cristo risorto. E quando lo capiscono lui è sparito. Proprio come quegli anni, e proprio quelli. Non a caso l’amore più intrigante è il primo. Come la prima sigaretta, come il primo vino che ci ha fatto ubriacare. Sono sensazioni ed emozioni che non si scordano. E che non si ripetono.   Molto sta nel gioco intrigante della nostalgia del futuro. Quello spirito presuppone una impossibilità di questa nostalgia, una predeterminazione che renderebbe la vita, nella visione di Freire, meno degna di essere squarciata, vissuta.  
L’accezione di Baricco è invece altra cosa. Forse meno intrigante come “nostalgia”, sicuramente importante se parliamo di vita quotidiana. Qualcuno scriveva un giorno dal Centro America “gli europei vivono ieri e domani, qui si vive oggi”. Il brutto rapporto che abbiamo con il presente, con il “qui ed ora” ci porta a vivere domani. Perché forse sarà meglio. Non costruzione di quel futuro di cui parla Freire, da fare mattone dopo mattone, da creare, da plasmare, speranza che qualcosa accada. Quasi fossimo, appunto, guidati dallo spiritello, magari con la speranza che la sua malignità sia clemente.
In entrambi i casi termino qui la bizzarria di questi pensieri, proseguendo ad ascoltare un grande piemontese che in questo momento canta “dammi un sandwich e un po’ di indecenza”.