Nostalgia del futuro. Ne parlò in tempi altri Paulo Freire (Recife, 1921 - 1997) Autore de “La pedagogia degli oppressi”. Grande pedagogista che stava dalla parte degli ultimi, che concepiva la pedagogia come strumento per superare barriere e dare una possibilità. Concetto alto di educazione insomma.
Perciò il dialogo è un'esigenza esistenziale. E se
esso è l'incontro in cui si fanno solidali il riflettere e l'agire dei
rispettivi soggetti orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare, non
si può ridurre all'atto di depositare idee da un soggetto all'altro, e molto
meno diventare semplice scambio di idee, come se fossero prodotti di consumo.
[...] Non esiste dialogo però, se non esiste un amore
profondo per il mondo e per gli uomini. Non è possibile dare un nome al mondo,
in un gesto di creazione e ricreazione, se non è l'amore a provocarlo. L'amore,
che è fondamento del dialogo, è anch'esso dialogo.
[...] Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non
amo gli uomini, non mi è possibile il dialogo.
[...] Se il dialogo è l'incontro degli uomini per
"essere di più", non può farsi senza speranza.
La speranza in un
futuro migliore, meno intriso delle diseguaglianze attuali. Un futuro da
conquistare con la forza della conoscenza. In modo molto più rozzo e
decisamente meno intrigante e con intenti neppure troppo diversi si diceva negli anni 70: “L’operaio conosce cento parole, il padrone mille,
per questo lui è il padrone” .
Quindi Nostalgia di quel futuro. Una contraddizione in
termini, un non senso? In fondo la nostalgia si ha delle cose che mancano ma
che abbiamo conosciuto. E forse potrebbe essere anche questa una forma di
saudaji. Freire era brasiliano. Non
penso sia un non senso, anzi, possiamo e forse dobbiamo averne “nostalgia” di
quella possibilità in più.
Ne parlava anche Baricco nella presentazione del suo libro
“Emmaus”. Qui il significato era altro, talmente antitetico da essere anch’esso
plausibile, quasi l’incontro di due opposti. Quasi nutella spalmata su creckers
salati. L’adolescenza, secondo Baricco, è il momento più alto della vita.
Qualcuno sostiene che dopo i vent’anni non possiamo che vivere di rendita.
Tutte le esperienze le abbiamo incamerate nei primi anni, il resto è valore
aggiunto. Negli anni tumultuosi dell’adolescenza siamo subissati da stimoli a
crescere, a “prepararci un futuro”, talmente spinti da non renderci conto di
quel che ci accade. Emmaus. La cena in cui i convitati non si rendono conto che
l’altro commensale è il Cristo risorto. E quando lo capiscono lui è sparito.
Proprio come quegli anni, e proprio quelli. Non a caso l’amore più intrigante è
il primo. Come la prima sigaretta, come il primo vino che ci ha fatto
ubriacare. Sono sensazioni ed emozioni che non si scordano. E che non si
ripetono. Molto sta nel gioco intrigante della nostalgia
del futuro. Quello spirito presuppone una impossibilità di questa nostalgia,
una predeterminazione che renderebbe la vita, nella visione di Freire, meno
degna di essere squarciata, vissuta.
L’accezione di Baricco è invece altra cosa. Forse meno
intrigante come “nostalgia”, sicuramente importante se parliamo di vita
quotidiana. Qualcuno scriveva un giorno dal Centro America “gli europei vivono
ieri e domani, qui si vive oggi”. Il brutto rapporto che abbiamo con il
presente, con il “qui ed ora” ci porta a vivere domani. Perché forse sarà
meglio. Non costruzione di quel futuro di cui parla Freire, da fare mattone
dopo mattone, da creare, da plasmare, speranza che qualcosa accada. Quasi fossimo,
appunto, guidati dallo spiritello, magari con la speranza che la sua malignità
sia clemente.
In entrambi i casi termino qui la bizzarria di questi
pensieri, proseguendo ad ascoltare un grande piemontese che in questo momento canta
“dammi un sandwich e un po’ di indecenza”.
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