Economia
L'economia europea
secondo il premio Nobel Stiglitz
Il 22 settembre
scorso, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, legge la sua Lectio
Magistralis alla Camera dei Deputati di
Roma. La stampa italiana non ne diede grande risalto, ma Il Manifesto sulle sue
pagine riporta ampi stralci di questo intervento che incide sulla carne
viva dei tanti errori della politica economica europea.
Il testo completo del suo intervento:
Non
ho bisogno spiegare quanto sia drammatica la situazione economica in Europa,
e in Italia in particolare. L’Europa è in quella che può definirsi
una «triple dip recession», con il reddito che è caduto non una, ma tre
volte in pochi anni, una recessione veramente inusuale. Così l’Europa ha perso
la metà di un decennio: in molti paesi il livello del Pil pro capite
è inferiore a quello del 2008, prima della crisi; se si estrapola la
serie del Pil europeo sulla base del tasso di crescita dei decenni passati,
oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l’Europa sta perdendo 2000 miliardi di
dollari l’anno rispetto al proprio potenziale di crescita.
Oggi
abbiamo a disposizione una grande quantità di dati sull’impatto delle
politiche di austerità in Europa. I paesi che hanno adottato le misure più
dure, ad esempio chi ha introdotto i maggiori tagli al proprio bilancio
pubblico, hanno avuto le performance peggiori. Non solo in termini di Pil, ma
anche in termini di deficit e debito pubblico. Era un esito previsto
e prevedibile: se il Pil decresce anche le entrate fiscali si riducono
e questo non può far altro che peggiorare la posizione debitoria
degli stati. Tutto ciò avviene non perché questi paesi non abbiano
realizzato politiche di austerità, ma proprio perché le hanno seguite. In molti
paesi europei siamo di fronte non a una recessione, ma a una
depressione.
La
Spagna, ad esempio, può essere descritta come un paese in depressione se si
guardano gli impressionanti dati sulla disoccupazione giovanile di quel paese.
La disoccupazione media è al 25% e non ci sono prospettive di
miglioramento per il prossimo futuro (…).
Quali
sono le cause? Devo dirlo con molta franchezza: l’errore dell’Europa
è stato l’euro.
Quando
faccio questa affermazione voglio dire che l’Euro è stato un progetto
politico, un progetto voluto dalla politica. Robert Mundell, premio Nobel per
l’economia, sosteneva fin dall’inizio che l’Europa non presentava le
caratteristiche di un’«area valutaria ottimale», adatta all’introduzione di
un’unica moneta per più paesi. Ma a livello politico si riteneva che la
moneta unica avrebbe reso l’Europa più coesa, favorendo l’emergere delle
caratteristiche proprie di un area valutaria ottimale. Questo non
è successo; l’euro, al contrario, ha contribuito a dividere
e frammentare l’Europa.
GLI ERRORI
CONCETTUALI
Vediamo
gli errori concettuali alla base del progetto dell’euro (…). Quando si crea
un’area monetaria si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento,
i tassi di cambio e i tassi di interesse. Gli shock sono inevitabili
e in assenza di meccanismi di aggiustamento si va incontro a lunghi
periodi di disoccupazione. I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio
unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli
Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California
ha un problema, può contare ad esempio sull’assicurazione pubblica contro la
disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in
California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch’esso
dotato di risorse federali. Un’altra differenza di fondo tra gli stati che
compongono gli Usa e quelli dell’Unione Europea è che nessuno negli
Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito
di una crisi occupazionale, anzi, l’emigrazione è vista come un meccanismo
fisiologico. Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha caratterizzato la
componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa — dove
la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi — ha effetti negativi
di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle
famiglie. Sono costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era
stato in qualche modo previsto nel momento in cui si è deciso di
introdurre l’euro (…).
Quali
altri errori sono stati compiuti? Innanzi tutto l’idea che le cose si sarebbero
risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit
o debito pubblico e Pil. È l’idea che sta dietro al Fiscal
compact. Ma non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai
criteri di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei
criteri fossero sbagliati: Spagna e Irlanda avevano un bilancio pubblico
in avanzo prima del 2009, non avevano sprecato risorse. Eppure hanno avuto
delle crisi gravissime. Il debito ed il disavanzo di questi paesi si sono
creati successivamente, per effetto della crisi, e non viceversa. Il fatto
di aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo
e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la
prossima crisi.
Un
altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un paese
si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese che contrae
il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito
sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello
europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che
ha investito l’Europa. Perché? Perché l’America si indebita in dollari,
e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati
Uniti può stampare i propri dollari.
La
crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi paesi europei negli
ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo
economista della Banca Mondiale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia
hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati
in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c’è sempre il
rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo
di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro. L’unica soluzione
possibile nell’attuale situazione europea è piuttosto semplice e si
chiama Eurobond. Tuttavia, sembrano esserci ostacoli politici a questa
soluzione che la rendono impraticabile, ma questa sembra l’unica via d’uscita
logica.
Inoltre,
con l’euro si è creato un sistema fondamentalmente instabile. L’obiettivo
iniziale era quello di favorire la convergenza tra gli stati europei,
attraverso la disciplina fiscale dei paesi membri. Il sistema che è stato
creato in realtà produce divergenza. Il mercato unico, la libera circolazione
dei capitali in Europa sembrava essere la strada verso una maggiore efficienza
economica. Ma non ci si rese conto del fatto che i mercati non sono perfetti.
Negli anni ottanta c’erano alcuni economisti convinti del perfetto
funzionamento dei mercati, mentre oggi siamo consapevoli delle innumerevoli
imperfezioni che li caratterizzano. Ci sono imperfezioni da lato della
concorrenza, imperfezioni sul versante del rischio e dell’informazione.
I mercati non sono quelli descritti dai modelli economici semplificati
(…).
L’INSISTENZA SULLE
RIFORME STRUTTURALI
Oggi
si insiste molto sulle riforme strutturali che i singoli stati dovrebbero
introdurre (…) Quando si sente la parola riforma si è portati
a pensare a qualcosa dagli esisti sicuramente positivi, ma sotto
quest’etichetta possono nascondersi misure dagli esiti profondamente negativi.
Le riforme strutturali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell’offerta,
con obiettivi come l’aumento dell’offerta o della produttività. Ma,
è realmente questo il problema dell’Europa e dell’economia globale?
No. I problemi oggi sono legati a una debolezza della domanda, non
dell’offerta. Le riforme strutturali sbagliate aggraveranno, attraverso la
riduzione dei salari o l’indebolimento degli ammortizzatori sociali, la
debolezza della domanda aggregata, con ovvie conseguenze su disoccupazione
e dinamica macro-economica. E’ necessario anche riflettere sul momento in
cui si possono adottare tali riforme.
Senza
scendere nel merito delle riforme del mercato del lavoro nei diversi paesi
europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati da un mercato del
lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi conseguenze della
crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con il mercato del lavoro
più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione al 10%. E anche oggi,
quando viene propagandata la grande ripresa dell’economia statunitense, con una
disoccupazione ridotta al 6%, bisogna pensare che c’è una fetta della
popolazione americana sfiduciata al punto tale da aver smesso di cercare
un’occupazione. Il tasso di disoccupazione reale degli Stati Uniti
è attorno al 10% (…).
Che
cosa dovrebbe dunque fare l’Europa? Sembra veramente difficile che si possa
risolvere la crisi intervenendo con riforme nei singoli paesi senza riformare
la struttura dell’eurozona nel suo complesso. Su alcuni di questi interventi
strutturali sembrerebbe esserci un discreto consenso.
In
primo luogo, una vera Unione bancaria, fatta di vigilanza e di
assicurazione comune sui depositi, faciliterebbe la risoluzione congiunta delle
crisi. Si tratta di misure urgenti, e l’urgenza è data dai numerosi
fallimenti di imprese e banche, che possono danneggiare seriamente le
prospettive di crescita future.
In
secondo luogo, è necessario un meccanismo federale di bilancio in Europa
che potrebbe prendere, ad esempio, la forma degli Eurobond, una soluzione
pratica e facile che consentirebbe all’Europa di utilizzare il debito in
funzione anticiclica, come hanno fatto gli Stati Uniti in questi anni. Se
l’Europa potesse indebitarsi a tassi di interesse negativi come stanno
facendo gli Stati Uniti potrebbe stimolare molti investimenti utili, rafforzare
l’economia e creare occupazione. E i soldi che oggi vengono spesi per
il servizio del debito dei singoli paesi potrebbero essere utilizzati per
politiche di stimolo alla crescita.
In
terzo luogo, l’austerità va abbandonata e va adottata una strategia
articolata di crescita. I paesi europei sono molto diversi tra loro, ad
esempio in termini di produttività. Sono dunque necessarie politiche
industriali che favoriscano la crescita della produttività nei paesi più
deboli, ma tali politiche sono precluse dai vincoli di bilancio imposti agli
stati membri.
Un
ostacolo ulteriore è rappresentato dalla politica monetaria. Negli Stati
Uniti la Federal Reserve ha un mandato articolato su quattro obiettivi:
occupazione, inflazione, crescita e stabilità finanziaria. Oggi il
principale obiettivo della Federal Reserve è l’occupazione, non
l’inflazione. Al contrario la Banca Centrale Europea ha come unico mandato
l’inflazione, si concentra unicamente sull’inflazione. Questo viene da un’idea
che era molto di moda, benché non comprovata da alcuna teoria economica, quando
lo Statuto della BCE è stato redatto. L’idea consisteva nel considerare la
bassa inflazione come l’elemento di traino fondamentale e quasi esclusivo
per la crescita economica. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale condivide
più questa convinzione, ma l’Europa non sembra in grado di abbandonarla.
Questa
politica monetaria sbagliata, può produrre e sta producendo conseguenze
economiche gravi. Se gli Stati Uniti mantengono bassi i loro tassi di
interesse per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre in Europa
i tassi continuano a mantenersi più elevati, in una logica
anti-inflazionistica, questo favorisce l’afflusso di capitali
e l’apprezzamento dell’euro. E questo, ovviamente, rende ancora più
difficile esportare le merci europee con un evidente impatto negativo sulla
crescita. Quando gli Stati uniti hanno cominciato ad adottare un politica
monetaria fortemente espansiva ricorrendo al «Quantitative easing», l’esito
positivo di questa politica è stato facilitato dal fatto che l’Europa non
ha fatto lo stesso.
PATOLOGIE USA
E UE
Se
l’Europa avesse abbassato i propri tassi di interesse nello stesso modo in
cui l’ha fatto la Federal Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe
arrivata molto più lentamente. Il paradosso, dunque, è che gli Stati Uniti
dovrebbero ringraziare l’Europa per aver aiutato la ripresa dell’economia
americana tramite le sue politiche monetarie sbagliate.
Ci
sono altri aspetti da considerare. Viviamo oggi in un economia fortemente
legata all’innovazione tecnologica e alla conoscenza. Ma per favorire
l’innovazione sono necessari investimenti costanti e di grandi dimensioni
in comparti come l’istruzione e le infrastrutture. Si tende a pensare
agli Stati Uniti come a un’economia innovativa. Questo è vero, ma
è necessario ricordare che negli Stati Uniti le innovazioni più
importanti, come Internet ad esempio, sono state sostenute e finanziate
attivamente dal governo. C’è stata una politica attiva dell’innovazione. Quando
ero a capo del Gruppo dei consiglieri economici della Casa bianca,
verificammo che i benefici degli investimenti pubblici in innovazione
erano superiori a quelli prodotti dagli investimenti privati. Si tratta di
esempi di politiche attive per la crescita che avrebbero effetti molto positivi
e che vanno in una direzione opposta a quella del rigore che sta
strangolando l’Europa.
Infine,
dobbiamo renderci conto che sia l’economia europea che quella statunitense
erano affette da un patologia ancor prima dell’esplosione della crisi. Fino al
2008 l’economia europea e quella americana erano sostenute da una bolla
speculativa che interessava principalmente il settore immobiliare. In assenza
di quella bolla si sarebbero visti tassi di disoccupazione molto più elevati.
Ovviamente non vogliamo tornare a una crescita fondata su bolle
speculative (…).
È necessario
comprendere, dunque, quali sono i problemi di fondo che colpivano le
nostre economie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati
affrontati sino ad oggi, sono peggiorati durante la recessione. Il primo
problema sono le disuguaglianze crescenti nelle nostre società. La crisi ha
contribuito ad aumentarle ovunque, negli Stati uniti i benefici della
ripresa sono andati quasi completamente all’1% più ricco della popolazione. Negli
Usa il valore del reddito mediano (quello che vede metà degli americani con
redditi più alti e l’altra metà con redditi inferiori) al netto
dell’inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Questo fa si che la
famiglia americana media non abbia soldi da spendere e, di conseguenza, la
domanda aggregata rimane debole. Il secondo elemento è legato alla
necessità di una trasformazione strutturale verso l’economia della conoscenza.
Una trasformazione che i mercati non sono in grado di gestire. Il ruolo di
guida e di stimolo di tali trasformazioni dev’essere esercitato dai
governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo
svolto questo compito (…)
La
politica industriale sarà senz’altro uno degli strumenti fondamentali per
uscire da questa situazione. È necessario un Fondo europeo per la
disoccupazione e un Fondo europeo per le piccole imprese, investimenti che
vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca europea degli investimenti.
Oltre
alle cose che andrebbero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già detto che maggiore
flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li
aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la
domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente un elevato grado
di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l’economia senza portare
vantaggi. Bisogna essere molto cauti.
COSA NON
BISOGNA FARE
Un’altra
cosa che l’Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico
sul commercio e gli investimenti (Ttip). Un accordo di questo tipo
potrebbe rivelarsi molto negativo per l’Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non
vogliono un accordo di libero scambio, vogliono un accordo di gestione del
commercio che favorisca alcuni specifici interessi economici. Il Dipartimento
del Commercio sta negoziando in assoluta segretezza senza informare nemmeno
i membri del Congresso americano. La posta in gioco non sono le tariffe
sulle importazioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La
vera posta in gioco sono le norme per la sicurezza alimentare, per la tutela
dell’ambiente e dei consumatori in genere.
Ciò
che si vuole ottenere con questo accordo non è un miglioramento del
sistema di regole e di scambi positivo per i cittadini americani ed
europei, ma si vuole garantire campo libero a imprese protagoniste di
attività economiche nocive per l’ambiente e per la salute umana. La Philip
Morris ha fatto causa contro l’Uruguay perché l’Uruguay vuol difendere i propri
cittadini dalle sigarette tossiche. La Philip Morris nel tentativo di
contrastare le misure adottate in Uruguay per tutelare i minori o i
malati dai rischi del fumo si è appellata proprio ai quei principi di
libero scambio che si vorrebbero introdurre con il Ttip. Sottoscrivendo un
accordo simile l’Europa perderebbe la possibilità di proteggere i propri
cittadini. Questo tipo di accordi, inoltre, aggravano le disuguaglianze e, in
una situazione come quella europea, rischierebbero di approfondire la recessione.
SI PUÒ ANCORA
ASPETTARE?
L’Europa
può ancora permettersi di aspettare? Se non si cambia la struttura
dell’eurozona, se l’Europa continua sulla strada attuale, si candida
a perdere un quarto di secolo, dovete esserne consapevoli. Quando eravamo
nel mezzo della Grande Depressione degli anni trenta, non si sapeva quanto
sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mondiale e la
massiccia spesa pubblica che l’ha accompagnata. Non dobbiamo augurarci che
l’attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l’Europa ha le mani
legate.
Infine,
la questione della democrazia. C’è un deficit di democrazia creato
dall’introduzione dell’euro. Gli elettori votano a favore di un
cambiamento delle politiche, poi arriva un nuovo governo che dice «ho le mani
legate, devo seguire le stesse politiche europee». Questo compromette la
fiducia nella democrazia. Oltre alle argomentazioni economiche che rendono
necessario un cambiamento c’è questa disaffezione nei confronti della politica,
che porta al rafforzamento delle forze estremiste. Non è soltanto
l’economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle
società europee.