ricoverata in
Svizzera in seguito ad un ictus, è un dialogo sulle sinistre, su Il Manifesto,
sulla vita e sulla morte. A tutto campo, insomma. Tralascio le cose della
politica, anche le beghe eterne e francamente avvilenti, frustranti che hanno
caratterizzato le sinistre dai tempi dei tempi. Ancora siamo a vedere la
tonalità di rosso mentre governa il peggio, il problema è che nessuno è più
fedele alla linea per i lsemplice fatto che ci sono seimila linee e via
dicendo. Mi ha colpito la parte in cui la quasi novantenne Rossanda parla anche di
Lucio Magri e della sua scelta, lo fa con parole tenere, e con il ricordo degli
strappi (rieccoli) di un tempo, quando discutevano animosamente pur essendo
amici.
“Stava male da anni, non era una
malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo
riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?".
Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto".
Aveva immaginato una morte serena,
"come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così.
"Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco.
Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito
malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere".
Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con
Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine.
"Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo
dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul
muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne
migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non
penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te,
incancellabile".
Appartengo ad una generazione che, obtorto collo, deve farsi
carico anche di questi pensieri, dell’affrontare il dialogo con la fine della
vita. E non posso parlare di vita ultraterrena, da ateo non sono in grado di
farlo, un funerale è una fine, non un inizio, e qui arrivano le incertezze e le
considerazioni sul nulla e sull’infinito. Noi, finiti, con lo sguardo che
arriva fino ad un punto, con i suoni che udiamo arrivare da là, con le certezze
della luce e dell’ombra, non siamo in grado di immaginare l’infinito, né il
nulla. I nostri “nulla” sono pieni di cose. Aria fresca magari, forse il rumore
di onde, comunque qualcosa di palpabile, tangibile, udibile, immaginabile.
Oltre l’oltre non ci è concesso di andare se non con la fantasia che a sua volta
rimane finita, delimitata. Allora, da atei, materialisti e razionali, con i
piedi ben piantati in terra, non possiamo considerare il fine vita che come una
parte della vita stessa, magari di una trasformazione di cellule che migrano,
così si spera di conquistare l’immortalità trascinando le nostre miserie fra i
petali una rosa gialla o nella criniera di un cavallo imbizzarrito, chissà. Oppure
qualcuno, magari trincendosi dietro la fede (finta) vuole conquistarla
medicalmente, magari mettendola nel programma elettorale, ma qui siamo alla
farsa, di Berlusconi (per fortuna) ce n’è uno solo.
Nell’intervista rimane il passagio, giusto, sul lutto e sull’impossibilità
di elaborarlo. Anche se il dolore si stempera nel tempo, rimangono comunque aperti
troppi non detti per poterlo dire finito (elaborato). Il lutto lo può elaborare
un credente che sa che c’è un aldilà dove potrà un giorno incontrare chi se ne
è andato e chiarire. D’altra parte leggevo di qualche laico che diceva che la
più grande invenzione del cristianesimo è stata proprio la vittoria sulla
morte, l’aldilà come immortalità è un bel viatico in fondo. Forse è per questo
che l’ateismo è tanto problematico, il nulla non esiste nella nostra
immaginazione, l’infinito neppure, il credente
prende atto che non sa bene cos’è il
nulla però l’infinito sarà decisamente luminoso. E poi all’inferno ci vanno
solo i maligni e i cattivi, nessuno in cuor suo lo è. Anche Totò Riina ha
lavorato una vita attorniato da immagini sacre, tutti i peggiori mafiosi hanno
altarini in casa, finanziano processioni, chiedono (a volte danno) indulgenze.
Forse è per questo che il suicidio di un laico, di un non
credente, ha un fascino, magari insano, ma indiscutibile. Riuscire a dire
basta, a vincere le resistenze di amici da sempre, addirittura farsi accompagnare dove le leggi sono meno
crudeli che in Italia, è un passo affascinante in sè. Perché chiamarla
sconfitta? Meglio dire “presa d’atto”. Quando si ritiene che la vita non abbia
più nulla da dare, quando l’esistenza è dolore, allora forse viene spontaneo
rifletterci. Rimane il dubbio sull’anticipare quello che è il dolore del lutto
per chi rimane, tuttavia chi decide con serena rabbia e pacato rancore di
andare oltre, non necessariamente si pone il problema. Pavese, Majakowskji,
Primo Levi, lo stesso Lucio Magri, persone che hanno deciso che il malessere di
vivere era più forte del dolore provocato. E chi muore, amici vicini o meno, è
comunque solo, questo è forse il mistero più forte, nonostante tutto si è soli quando
si decide il passo. La mia generazione, quella che ha visto infrangersi i sogni
di una giovinezza contro la caduta non già delle ideologie, piuttosto delle
speranze, in fondo è sola. Responsabilità ce ne sono a bizzeffe, e sono tutte
nostre, di chi non ha saputo passare dal sogno al pragmatismo, però il disagio
di una guerra perduta così violentemente, senza una rivincita, senza aver
lasciato speranze di pacificazione, ma solo macerie, quelle del welfare
azzerato, dei diritti negati, della politica sporca, è esageratamente forte.
Dagli anni ’80 viviamo una morte civile che non ha termine, senza soluzione di
continuità.
Nel ’45 la guerra era persa, però era vinta la resistenza,
ed erano tempi di speranze, si costruiva la Democrazia, si faceva la Costituzione,
si andava dritti verso un risanamento economico, politico ed etico che faceva vedere
prati fioriti. Pur con gli scontri e le differenze di vedute. Gli anni ’80 sono
invece stati la negazione dei dieci anni precedenti. E noi non sapemmo
cogliere, prima, le avvisaglie di una politicizzazione malata di politica. La
parte del movimento che voleva dare spazio alla fantasia al potere, al nuovo
che incombeva, alla risata che seppellirà il male, era minoranza. E non ce ne
siamo accorti. Eppure avevamo contribuito a portare l’Italia nel mondo civile,
almeno in parte, cos’altro sono il divorzio, il diritto all’aborto non
clandestino, se non strade aperte verso la civiltà? Ed oggi abbiamo un
parlamento che è l’esatto opposto. Politici divorziati e conviventi che
vogliono impedire ad altri di divorziare, ladroni di denaro pubblico,
puttanieri che pagano minorenni, collusi con le mafie che si fanno eleggere (e
ci riescono bene) per avere impunità. Non è errore, l’immunità è altra cosa. Forse siamo noi che non ci siamo adeguati al
nuovo? Che siamo rimasti indietro? Chissà! E la sconfitta politica si è
tramutata per molti in sconfitta personale, di vita quotidiana, la vita è
divenuta sopravvivenza.
No, non è un’ode al suicidio, in fondo la vita può essere
bella, sono solo riflessioni della terza età, quando il tempo si accorcia come
le giornate in autunno, quando senti parlare più di funerali che di matrimoni o
di battesimi. Già, vivere per vivere, ha un senso?