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sabato 22 giugno 2013

Leccesi e turisti, volete il filobus? Ma smettetela!

viale Japigia, altezza del civico 2


Lecce città turistica. Potrebbe esse questo il titolo della foto. La linea 31 , per capirci, è quella che porta alla stazione ferroviaria. Il 30 percorre la circonvallazione in un senso, il 31 nel senso opposto. La bizzarria della soppressione di una linea (di filobus ovviamente) così importante nel periodo estivo è di per sè uno schiaffone ai turisti e agli utenti leccesi senza auto, comunicarlo con un bigliettino senza intestazione, senza firma, attaccato con nastro adesivo, è un insulto vero e proprio. Tradotto si potrebbe leggere più o meno così: "pezzente di utente, vuoi anche il filobus? Paga i 21 milioni di euro e taci, te lo diamo quando, come e se vogliamo noi e non rompere i cabasisi". (senza firma ovviamente, il popolo bue non merita sapere chi scrive cosa).


scritte sui muri ed altre amenità.

Girovagando qua e la si osserva. E’ estate. Manifesti sui muri solo per feste patronali o per qualche consiglio comunale. In giro ragazzi e bimbi che corrono e vagano per le strade assolate. Così capita di guardarsi attorno per vedere una chiesa barocca, un balcone con cariatidi che sorridono ed altre tristi. Finestre con persiane socchiuse ed occhi che spiano quel che accade sulla piazza. Giorni d’estate insomma. Ma quelle scritte strane, divertenti, stanno lì ed ammiccano. Così un bigliettino su una porta, elegantemente stampato al computer con una cornice floreale. Ed è talmente piacevole da vedere che ti costringe ad attraversare le strada per leggerlo.   “Testimoni di geova, predicatori di pace. Lasciateci in pace, siamo cattolici”. Pacato avvertimento, da fedele a fedele.
E ricordo una giornata di febbraio a Genova. Vicino al centro storico una scritta senza fiorellini, ma molto eloquente lei pure. La paura a volte è tanta e ci si ritrova a doverla esternare, senza remore, senza ansie, con il coraggio che solo alcune situazioni ci aiutano a trovare: “immigrati, per favore, non lasciateci soli con gli italiani”.
Così anche un più prosaico “ti amerò per sempre” sul ponte della superstrada lascia immaginare un futuro pieno di passeggiate fra i campi o vicino al mare. Un per sempre troppo impegnativo per noi che sappiamo che il mai e il per sempre sono irraggiungibili.
Provate a passare, se mai vi capiterà, a Ruffano. Nella piazza, accanto al bar e al giornalaio,  troverete la farmacia, con tanto di insegna e croce verde che si accende e si spegne. Accanto a quella, un’altra insegna, non luminosa però, “Farmacia dei sani”. Altro non è che una  trattoria.  Solitamente chi ci entra guarda con aria compiaciuta l’altro ingresso che, al momento, non lo riguarda. Ma questo è marketing. Sui muri leggi altro.
L’amore la fa da padrone spesso. Così accanto a “Laura ti amo”, puoi trovare un malinconico: “non riesco a dimenticarti”, e sicuramente aveva amici e complici lo scrittore, compagni di strada o magari solo di scuola che hanno preso a cuore la sua sofferenza e gli hanno suggerito: “prova a mangiare meno pesce”. Si sa, a volte la memoria occorre moderarla.
E doveva avere un animo giocoso l’autore di “meno stress, più farfalle”. Così come chi desidera stare un po’ in pace con la persona amata e scrive, forse sotto casa sua, “io e te a otto metri sopra il cielo, a tre c’è troppa gente”.
I muri, come sempre, parlano. A volte linguaggi cruenti, più spesso, e per fortuna, svolazzanti messaggi di pace. “Via le mani dagli occhi”, è pur vero che è solo  il titolo di una canzone. Però mi è piaciuto scritto da qualche parte, la canzone è altra cosa. E non è poi così male in questi tempi. E ancora:  “Simo ti amo troppo….ormai” lascia pensare ad una strada senza possibilità di ritorno (ormai). Però si può consolare l’autore. “ormai” non è per sempre. Lo ricorda un’altra scritta su un altro muro “Sono pazzo di te” corretta dopo qualche tempo con spray di altro colore  che l’ha trasformata in “Ero pazzo di te, ma sono guarito”. Nessun male è incurabile in fondo. Così qualcuno scrive, pacatamente e serenamente (giusto per parafrasare) “perdonami se ti voglio bene” quasi il farlo fosse un insulto.  Ma è tempo di esami di stato, e un preoccupato candidato va sul muro di cinta di un liceo e scrive in azzurro : “La notte prima degli esami. Commissari siate clementi”.  E leggendo su un camioncino “Cooperativa solidarietà a responsabilità limitata” sorge spontanea la domanda su cosa sia a responsabilità limitata. Se è non è la coop il problema esiste. Però è bene mettersi a posto con la coscienza. Giusto dopo aver letto su un giornale (di quelli seri) che le balene è giusto cacciarle perché si nutrono di troppi pesci. Ne consegue, evidentemente, che tolgono ai bimbi del terzo mondo l’opportunità di nutrirsi di orate al cartoccio delle quali pare vadano pazzi. Qualcuno, su un muretto nelle campagne, ha scritto a caratteri cubitali “gli animali hanno un’anima”. Ebbene si. Guidando i pensieri corrono sconnessi e apparentemente scollati fra loro.  Così dopo un po’ un’altra scritta mi riporta con i piedi in terra e il cerchio pare chiudersi : “meglio immigrati e poveri che italiani paranoici e razzisti”.  Nel frattempo arrivo e  leggo una lapide nel centro storico che recita: “Comune di Corigliano, circondario di Cutrufiano, collegio elettorale di Maglie, provincia di terra d’Otranto.” Già. Perché prima di essere universalmente conosciuto come Salento, questo territorio era “Terra d’Otranto”. Ora è una parte della Puglia, anzi, delle Puglie. Perché la regione è lunga, molto. Inizia nel centro Italia e finisce nel profondo sud. Uno sguardo alla Chiesa barocca, uno alla lapide che ricorda Salvatore Nuzzo, morto partigiano in terra di Cuneo, e proseguo a fare ciò per cui sono qui. Non senza aver letto: “ Le dimensioni del mio caos” ed aver pensato che forse non è poi così sbagliata la cosa, sul muretto bello lindo, appena imbiancato leggo un ineffabile: “Signora, mi spiace per il muro ma è troppo bello scriverci”.
Poi torno a casa, vedo la posta, leggo post su facebook, uno mi colpisce in particolare, l’amore a volte è incontenibile “L’amore è quella cosa che… mannaggiacristo….





venerdì 21 giugno 2013

Fa caldo

Come avevamo ampiamente anticipato nel mese di febbraio, oggi, primo giorno d'estate, i giornali e i telegiornali titolano a tutta pagina: FA CALDO. La vera novità dell'estate sarà questa?
Comunque, per non smentirci, anticipiamo i titoli del 21 dicembre prossimo: FA FREDDO!!!
Questa è informazione!

giovedì 20 giugno 2013

Democrazia diretta e movimento cinque stelle

E così la Gambaro è stata espulsa con ignominia dal movimento di Casaleggio (e Grillo), per aver osato dire che forse il portavoce non eletto ha esagerato. A decidere tutto quanto è stata "La Rete". Come in ogni democrazia evoluta le decisioni si prendono a furor di popolo. Ma chi è la rete? La prima considerazione è che su 59 milioni circa di residenti in Italia (neonati compresi) circa il 50% utilizza "la rete". Di questa quota circa il 50% è di età compresa fra ai 14 e i 29 anni. (Fonte: http://www.drontech.it/2011/quanti-italiani-navigano-sul-web-e-cosa-cercano-principalmente-68199/#).  Dal blog di Beppe Grillo apprendiamo che: 

"Le operazioni di voto si sono concluse. Gli aventi diritto erano 48.292, di questi hanno votato in 19.790. Il 65,8% (pari a 13.029 voti) ha votato per l'espulsione, il restante 34,2% (pari a 6.761 voti) ha votato per il no. Grazie a tutti coloro che hanno partecipato".

In sostanza, degli 8 milioni circa di votanti quel movimento, solo 18000 circa hanno diritto di veto e di cacciare chi vogliono e quando vogliono. Più che una democrazia diretta ha l'aspetto di una cupola. La tanto decantata "rete" sembra un'accolita di fedelissimi del padrone del movimento. Nulla a che vedere con il concetto di Democrazia diretta, insomma. il volere degli otto milioni di elettori è qualcosa di evanescente, inutile, impossibile. Se teniamo conto dei milioni di italiani che alla "rete" non hanno accesso per svariati motivi (il 50%) bene si capisce come tutto abbia l'aspetto di polvere negli occhi per mascherare una solida oligarchia che neppure nei peggiori comitati centrali aveva casa. 

mercoledì 19 giugno 2013

F35 strumenti di pace (?)

«Sarebbe contraddittorio ridurre ulteriormente il numero di caccia F35 da acquistare. Se scendiamo sotto i 90 dovremmo chiederci se abbiamo ancora un'aviazione». Lo ha detto il ministro della Difesa, Mario Mauro.

Naturalmente, ha rilevato il ministro,« il Parlamento è sovrano, si discuterà, ma io, da ministro della Difesa, ho la responsabilità di segnalare problemi e opportunità». Peraltro, ha aggiunto, «fin dal 1998 il programma è stato discusso dal Parlamento che lo ha ritenuto strategico, adeguato e congruo. È una tecnologia avanzatissima, con un forte contributo italiano ed è anche una grande opportunità per la nostra industria, ma sopratutto - ha sottolineato - è ciò di cui abbiamo bisogno per avere uno strumento militare efficiente, in grado di svolgere un ruolo all'interno delle alleanze Ue e Nato».

Mauro ha contestato poi i dati sui costi del programma. «L' Italia - ha puntualizzato - spende 11,8 miliardi di euro e ne ricaverà 15 miliardi, quindi ci guadagniamo». Altro punto di debolezza segnalato dai detrattori di Jsf è rappresentato dai problemi tecnici che sono emersi nella fase di sviluppo. Ma, ha replicato il ministro, «questo è un indice della trasparenza del programma ed è ciò che ci consente di avere a fine ciclo un aereo sicuro. Tutti i velivoli subiscono un aggiornamento continuo anche quelli in dotazione da venti anni».

Il titolare della Difesa ha quindi definito l'F35 «uno strumento utile di deterrenza che ci aiuta a costruire la pace. La tecnologia del caccia - ha concluso - consente un grande contenimento degli effetti collaterali della sua azione portando così ad evitare i danni ai civil». (Fonte: Informazione Libera)


Definire gli F35 strumenti per costruire la pace è come dire che le sigarette sono utilissime per la lotta al cancro. 

E questo è un ministro.... mica un leghista qualunque. 

E' nata ROSS-@ (Rossa?)

Toh, c'è anche ross.@ (rossa?) - Un cantiere delle sinistre? Mah. Dopo ALBA, SEL, ora il nuovo soggetto per capire chi è più rosso di chi. La vera Salerno Reggio Calabria della politica è qui. Arrivederci al 2051, quando i cantieri faranno la trecentesima riunione congiunta per poi dividersi sulla scelta delle penne all'arrabbiata. Pancetta affumicata o normale? Starà lì il discrimine.

martedì 18 giugno 2013

Leggendo Rossana Rossanda

Il 7 giugno è uscita su Repubblica un’intervista a Rossana Rossanda, http://www.repubblica.it/cultura/2013/06/07/news/rossana_rossanda-60545426/?ref=HREC1-11
 ricoverata in Svizzera in seguito ad un ictus, è un dialogo sulle sinistre, su Il Manifesto, sulla vita e sulla morte. A tutto campo, insomma. Tralascio le cose della politica, anche le beghe eterne e francamente avvilenti, frustranti che hanno caratterizzato le sinistre dai tempi dei tempi. Ancora siamo a vedere la tonalità di rosso mentre governa il peggio, il problema è che nessuno è più fedele alla linea per i lsemplice fatto che ci sono seimila linee e via dicendo. Mi ha colpito la parte in cui  la quasi novantenne Rossanda parla anche di Lucio Magri e della sua scelta, lo fa con parole tenere, e con il ricordo degli strappi (rieccoli) di un tempo, quando discutevano animosamente pur essendo amici.

“Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto". 
Aveva immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile".

Appartengo ad una generazione che, obtorto collo, deve farsi carico anche di questi pensieri, dell’affrontare il dialogo con la fine della vita. E non posso parlare di vita ultraterrena, da ateo non sono in grado di farlo, un funerale è una fine, non un inizio, e qui arrivano le incertezze e le considerazioni sul nulla e sull’infinito. Noi, finiti, con lo sguardo che arriva fino ad un punto, con i suoni che udiamo arrivare da là, con le certezze della luce e dell’ombra, non siamo in grado di immaginare l’infinito, né il nulla. I nostri “nulla” sono pieni di cose. Aria fresca magari, forse il rumore di onde, comunque qualcosa di palpabile, tangibile, udibile, immaginabile. Oltre l’oltre non ci è concesso di andare se non con la fantasia che a sua volta rimane finita, delimitata. Allora, da atei, materialisti e razionali, con i piedi ben piantati in terra, non possiamo considerare il fine vita che come una parte della vita stessa, magari di una trasformazione di cellule che migrano, così si spera di conquistare l’immortalità trascinando le nostre miserie fra i petali una rosa gialla o nella criniera di un cavallo imbizzarrito, chissà. Oppure qualcuno, magari trincendosi dietro la fede (finta) vuole conquistarla medicalmente, magari mettendola nel programma elettorale, ma qui siamo alla farsa, di Berlusconi (per fortuna) ce n’è uno solo.
Nell’intervista rimane il passagio, giusto, sul lutto e sull’impossibilità di elaborarlo. Anche se il dolore si stempera nel tempo, rimangono comunque aperti troppi non detti per poterlo dire finito (elaborato). Il lutto lo può elaborare un credente che sa che c’è un aldilà dove potrà un giorno incontrare chi se ne è andato e chiarire. D’altra parte leggevo di qualche laico che diceva che la più grande invenzione del cristianesimo è stata proprio la vittoria sulla morte, l’aldilà come immortalità è un bel viatico in fondo. Forse è per questo che l’ateismo è tanto problematico, il nulla non esiste nella nostra immaginazione, l’infinito neppure,  il credente  prende atto che non sa bene cos’è il nulla però l’infinito sarà decisamente luminoso. E poi all’inferno ci vanno solo i maligni e i cattivi, nessuno in cuor suo lo è. Anche Totò Riina ha lavorato una vita attorniato da immagini sacre, tutti i peggiori mafiosi hanno altarini in casa, finanziano processioni, chiedono (a volte danno) indulgenze.
Forse è per questo che il suicidio di un laico, di un non credente, ha un fascino, magari insano, ma indiscutibile. Riuscire a dire basta, a vincere le resistenze di amici da sempre, addirittura  farsi accompagnare dove le leggi sono meno crudeli che in Italia, è un passo affascinante in sè. Perché chiamarla sconfitta? Meglio dire “presa d’atto”. Quando si ritiene che la vita non abbia più nulla da dare, quando l’esistenza è dolore, allora forse viene spontaneo rifletterci. Rimane il dubbio sull’anticipare quello che è il dolore del lutto per chi rimane, tuttavia chi decide con serena rabbia e pacato rancore di andare oltre, non necessariamente si pone il problema. Pavese, Majakowskji, Primo Levi, lo stesso Lucio Magri, persone che hanno deciso che il malessere di vivere era più forte del dolore provocato. E chi muore, amici vicini o meno, è comunque solo, questo è forse il mistero più forte, nonostante tutto si è soli quando si decide il passo. La mia generazione, quella che ha visto infrangersi i sogni di una giovinezza contro la caduta non già delle ideologie, piuttosto delle speranze, in fondo è sola. Responsabilità ce ne sono a bizzeffe, e sono tutte nostre, di chi non ha saputo passare dal sogno al pragmatismo, però il disagio di una guerra perduta così violentemente, senza una rivincita, senza aver lasciato speranze di pacificazione, ma solo macerie, quelle del welfare azzerato, dei diritti negati, della politica sporca, è esageratamente forte. Dagli anni ’80 viviamo una morte civile che non ha termine, senza soluzione di continuità.
Nel ’45 la guerra era persa, però era vinta la resistenza, ed erano tempi di speranze, si costruiva la Democrazia, si faceva la Costituzione, si andava dritti verso un risanamento economico, politico ed etico che faceva vedere prati fioriti. Pur con gli scontri e le differenze di vedute. Gli anni ’80 sono invece stati la negazione dei dieci anni precedenti. E noi non sapemmo cogliere, prima, le avvisaglie di una politicizzazione malata di politica. La parte del movimento che voleva dare spazio alla fantasia al potere, al nuovo che incombeva, alla risata che seppellirà il male, era minoranza. E non ce ne siamo accorti. Eppure avevamo contribuito a portare l’Italia nel mondo civile, almeno in parte, cos’altro sono il divorzio, il diritto all’aborto non clandestino, se non strade aperte verso la civiltà? Ed oggi abbiamo un parlamento che è l’esatto opposto. Politici divorziati e conviventi che vogliono impedire ad altri di divorziare, ladroni di denaro pubblico, puttanieri che pagano minorenni, collusi con le mafie che si fanno eleggere (e ci riescono bene) per avere impunità. Non è errore, l’immunità è altra cosa.  Forse siamo noi che non ci siamo adeguati al nuovo? Che siamo rimasti indietro? Chissà! E la sconfitta politica si è tramutata per molti in sconfitta personale, di vita quotidiana, la vita è divenuta sopravvivenza.

No, non è un’ode al suicidio, in fondo la vita può essere bella, sono solo riflessioni della terza età, quando il tempo si accorcia come le giornate in autunno, quando senti parlare più di funerali che di matrimoni o di battesimi. Già, vivere per vivere, ha un senso?      

lunedì 17 giugno 2013

Négritude (negritudine)

Négritude, negritudine, il termine venne usato per la prima volta da Aimé Césaire nel terzo numero della rivista L’Etudiant noir. Negritudine come rivendicazione della cultura negra a fronte di quella dominante e colonizzatrice dei francesi. Erano gli anni ’30 del secolo scorso.
“Tre ragazzi in abiti chiari, passeggiano lungo il boulevard Sain Michel, in direzione dei giardini del Lussemburgo. Si sono incontrati nel piazzale del liceo Louis le Grand, il più prestigioso, il più severo. Robespierre studiò lì…” Inizia così la prefazione del libro “Poemi della negritudine”, edito dalla salentina casa editrice Modu Modu. I tre ragazzi sono Léopold Sédar Sènghor, Aimé e Léon-Gontrand. Senghor sarà più avanti Presidente del Senegal e riuscirà a farlo entrare a pieno titolo fra i paesi democratici. Lo stesso successe in Martinica con Césaire. La negritude non è il modo di “affermare identità differenziate, essere senegalesi, piuttosto che Martinicani o Malgasci) ma di opporsi con forza  alla civiltà dell’universale che tuto e tutti assimila e in base alla quale si è soltanto se si è europei”[1].
Négritude quindi come riscatto e come riconoscimento dell’essere umano, al di là del colore della pelle. Sartre fu solidale con questo movimento di poeti e, in uno scritto per la rivista Présence Africaine, distribuita in Francia e a Dakar, definì la négritude come “la negazione della negazione dell’uomo nero”. E ancora, in uno studio a cura di Senghor “L’antologia della nuova poesia nera e malgascia di lingua francese” la paragonò a Orfeo che cerca la sua Euridice, il nero che cerca sé stesso, le proprie radici.
E nelle pagine del libro si trovano poesie che rivendicano, sperano, osano sfidare con le armi della cultura: “La mia Negritudine non è affatto sonno della razza ma sole dell’anima…”. Un libro che si rivolge in copertina al fratello bianco:

Caro fratello bianco
Quando io sono nato, ero nero
Quando sono cresciuto, ero nero
Quando sto al sole, sono nero
Quando sono malato, sono nero
Quando morirò, sarò nero
Mentre tu, uomo bianco
Quando se nato, eri rosa
Quando sei cresciuto, eri bianco
Quando prendi il sole, sei rosso
Quando hai freddo, sei blu
Quando hai paura, sei verde
Quando sei malato, sei giallo
Quando morirai, sarai grigio
Allora, di noi due,
Chi è l’uomo di colore?

E così l’amico Amadou con la sua casa editrice salentina che ci racconta il Senegal e l'Africa,  ha colpito ancora,  occhio ai ragazzi di Modu Modu, ci sanno fare  in mezzo a un'editoria locale che è pure produttiva, troppo spesso però ingessata e statica. 

AA.VV. Poemi della Negritudine Modu Modu editore - € 9,00 (francese con testo a fronte)
Presentazione e traduzione: Antonella Colletta – Illustrazioni: Marta Solazzo.





[1] Poemi della Negritudne, pag. 8