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martedì 18 giugno 2013

Leggendo Rossana Rossanda

Il 7 giugno è uscita su Repubblica un’intervista a Rossana Rossanda, http://www.repubblica.it/cultura/2013/06/07/news/rossana_rossanda-60545426/?ref=HREC1-11
 ricoverata in Svizzera in seguito ad un ictus, è un dialogo sulle sinistre, su Il Manifesto, sulla vita e sulla morte. A tutto campo, insomma. Tralascio le cose della politica, anche le beghe eterne e francamente avvilenti, frustranti che hanno caratterizzato le sinistre dai tempi dei tempi. Ancora siamo a vedere la tonalità di rosso mentre governa il peggio, il problema è che nessuno è più fedele alla linea per i lsemplice fatto che ci sono seimila linee e via dicendo. Mi ha colpito la parte in cui  la quasi novantenne Rossanda parla anche di Lucio Magri e della sua scelta, lo fa con parole tenere, e con il ricordo degli strappi (rieccoli) di un tempo, quando discutevano animosamente pur essendo amici.

“Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto". 
Aveva immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile".

Appartengo ad una generazione che, obtorto collo, deve farsi carico anche di questi pensieri, dell’affrontare il dialogo con la fine della vita. E non posso parlare di vita ultraterrena, da ateo non sono in grado di farlo, un funerale è una fine, non un inizio, e qui arrivano le incertezze e le considerazioni sul nulla e sull’infinito. Noi, finiti, con lo sguardo che arriva fino ad un punto, con i suoni che udiamo arrivare da là, con le certezze della luce e dell’ombra, non siamo in grado di immaginare l’infinito, né il nulla. I nostri “nulla” sono pieni di cose. Aria fresca magari, forse il rumore di onde, comunque qualcosa di palpabile, tangibile, udibile, immaginabile. Oltre l’oltre non ci è concesso di andare se non con la fantasia che a sua volta rimane finita, delimitata. Allora, da atei, materialisti e razionali, con i piedi ben piantati in terra, non possiamo considerare il fine vita che come una parte della vita stessa, magari di una trasformazione di cellule che migrano, così si spera di conquistare l’immortalità trascinando le nostre miserie fra i petali una rosa gialla o nella criniera di un cavallo imbizzarrito, chissà. Oppure qualcuno, magari trincendosi dietro la fede (finta) vuole conquistarla medicalmente, magari mettendola nel programma elettorale, ma qui siamo alla farsa, di Berlusconi (per fortuna) ce n’è uno solo.
Nell’intervista rimane il passagio, giusto, sul lutto e sull’impossibilità di elaborarlo. Anche se il dolore si stempera nel tempo, rimangono comunque aperti troppi non detti per poterlo dire finito (elaborato). Il lutto lo può elaborare un credente che sa che c’è un aldilà dove potrà un giorno incontrare chi se ne è andato e chiarire. D’altra parte leggevo di qualche laico che diceva che la più grande invenzione del cristianesimo è stata proprio la vittoria sulla morte, l’aldilà come immortalità è un bel viatico in fondo. Forse è per questo che l’ateismo è tanto problematico, il nulla non esiste nella nostra immaginazione, l’infinito neppure,  il credente  prende atto che non sa bene cos’è il nulla però l’infinito sarà decisamente luminoso. E poi all’inferno ci vanno solo i maligni e i cattivi, nessuno in cuor suo lo è. Anche Totò Riina ha lavorato una vita attorniato da immagini sacre, tutti i peggiori mafiosi hanno altarini in casa, finanziano processioni, chiedono (a volte danno) indulgenze.
Forse è per questo che il suicidio di un laico, di un non credente, ha un fascino, magari insano, ma indiscutibile. Riuscire a dire basta, a vincere le resistenze di amici da sempre, addirittura  farsi accompagnare dove le leggi sono meno crudeli che in Italia, è un passo affascinante in sè. Perché chiamarla sconfitta? Meglio dire “presa d’atto”. Quando si ritiene che la vita non abbia più nulla da dare, quando l’esistenza è dolore, allora forse viene spontaneo rifletterci. Rimane il dubbio sull’anticipare quello che è il dolore del lutto per chi rimane, tuttavia chi decide con serena rabbia e pacato rancore di andare oltre, non necessariamente si pone il problema. Pavese, Majakowskji, Primo Levi, lo stesso Lucio Magri, persone che hanno deciso che il malessere di vivere era più forte del dolore provocato. E chi muore, amici vicini o meno, è comunque solo, questo è forse il mistero più forte, nonostante tutto si è soli quando si decide il passo. La mia generazione, quella che ha visto infrangersi i sogni di una giovinezza contro la caduta non già delle ideologie, piuttosto delle speranze, in fondo è sola. Responsabilità ce ne sono a bizzeffe, e sono tutte nostre, di chi non ha saputo passare dal sogno al pragmatismo, però il disagio di una guerra perduta così violentemente, senza una rivincita, senza aver lasciato speranze di pacificazione, ma solo macerie, quelle del welfare azzerato, dei diritti negati, della politica sporca, è esageratamente forte. Dagli anni ’80 viviamo una morte civile che non ha termine, senza soluzione di continuità.
Nel ’45 la guerra era persa, però era vinta la resistenza, ed erano tempi di speranze, si costruiva la Democrazia, si faceva la Costituzione, si andava dritti verso un risanamento economico, politico ed etico che faceva vedere prati fioriti. Pur con gli scontri e le differenze di vedute. Gli anni ’80 sono invece stati la negazione dei dieci anni precedenti. E noi non sapemmo cogliere, prima, le avvisaglie di una politicizzazione malata di politica. La parte del movimento che voleva dare spazio alla fantasia al potere, al nuovo che incombeva, alla risata che seppellirà il male, era minoranza. E non ce ne siamo accorti. Eppure avevamo contribuito a portare l’Italia nel mondo civile, almeno in parte, cos’altro sono il divorzio, il diritto all’aborto non clandestino, se non strade aperte verso la civiltà? Ed oggi abbiamo un parlamento che è l’esatto opposto. Politici divorziati e conviventi che vogliono impedire ad altri di divorziare, ladroni di denaro pubblico, puttanieri che pagano minorenni, collusi con le mafie che si fanno eleggere (e ci riescono bene) per avere impunità. Non è errore, l’immunità è altra cosa.  Forse siamo noi che non ci siamo adeguati al nuovo? Che siamo rimasti indietro? Chissà! E la sconfitta politica si è tramutata per molti in sconfitta personale, di vita quotidiana, la vita è divenuta sopravvivenza.

No, non è un’ode al suicidio, in fondo la vita può essere bella, sono solo riflessioni della terza età, quando il tempo si accorcia come le giornate in autunno, quando senti parlare più di funerali che di matrimoni o di battesimi. Già, vivere per vivere, ha un senso?      

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