Ogni volta che mi chiedono cosa diamine faccio in Salento mi
viene in mente n libro: “Questa terra è la mia terra”, è di Woody Goothrie, Hal Ashby lo traspose in film. Ancora non
siamo nelle stesse condizioni della grande depressione degli USA, dei viaggi
scroccati in treni merci, non ancora, anche se sembra incombere il tempo in cui
saremo “depressi”. E’ il titolo ad essere evocativo. Per chi come me vede i
confini come inutili orpelli, sogna il momento in cui un senegalese o un
marocchino possano arrivare in Italia con naturalezza, senza il passaggio
umiliante da questure e prefetture, e il momento in cui si possa avere un solo
passaporto ed un ordine mondiale che metta avanti a tutto il diritto delle
persone a vivere, è facile sentirsi a casa propria anche a mille chilometri di
distanza. Arrivi in Salento e ti trovi a guardarti attorno, a respirare barocco,
scirocco e tramontana. Però poi abbassi
lo sguardo e, ahimè, ahinoi, vedi rifiuti ai bordi delle strade…. Ma questa è
altra storia, è storia dannata, è storia salentina e non solo. Passeggiavo con
amici al primo sole di primavera, eravamo nei pressi di San Foca e pochi
pescatori stavano lì. C’era aria di uscita dal tunnel dell’inverno. Che poi non
è mica così male la stagione fredda, ci sono rape e cicorie. Però l’estate è
l’estate, ti fa volare. Stavo a Castro l’altro giorno, con amici che avevano da
fare là. Ho passato un inverno nella pacata calma di Castro marina. Scendere in
piazzetta quando ancora era piazzetta, prima del crollo che l’ha ferita a morte,
quasi come Cyrano colpito a tradimento per la sua piuma sul cappello che
significava “non ci sto”, scendere nelle mattinate di gennaio e passare alla
Chianca a prendersi un caffè, poi leggere il giornale là fuori, sulle seggiole
del bar quando non pioveva e il vento lo permetteva. E commentare con chi arrivava
e si fermava. Perché dopo pochi giorni diventi parte del luogo. “Lei non è di
qui….” “diamoci del tu, mi fa sentire meno vecchio” così diventi amico di
tutti. Così questa diventa la mia terra. E leggo quelli che scrivono di ieri o del
secolo scorso usando a volte parole coeve al tempo che descrivono. “Le vecchie
cose di pessimo gusto” diceva Fogazzaro. Non tutti, non tutti, alcuni hanno
parole che vanno diritte al cuore senza passare per il cervello che le
attualizzi. “Che ci fai in Salento?” “guardo il mare e sento i profumi…” poi
ascolti i politici che parlano di politica, poi ascolti una sirena… Nulla sono i
vigili del fuoco che spengono un’auto, “la polizia indaga” diranno i giornali.
Poi leggo la mail degli amici che fanno politica e che vogliono la campagna
elettorale impegnata per la città, e mi chiedo perché. Mi sta annoiando la
politica da quando la polis è uscita dalla finestra come quel marito che disse
“vado a comprare le sigarette”. Che c’entra la polis con Castro marina? Molto,
tanto, qualcosina. Ed ora che scrivo se la politica mi annoia? Parlo del mare
che scava le rocce? Parlo delle torri costiere? Parlo delle contaminazioni
culinarie? E facciamo poesia allora. Io che ho sempre guardato con sospetto i
poeti, perché loro sono capaci di mettere assieme quattro parole e parlarti del
mondo intero, emozioni, sensazioni, sentimenti.
Che c’entra la polis con Porto Miggiano? La strada è
emozione allo stato puro, colline di pietre, il mare là sotto, blu e verde.
Terra quasi verde in inverno, arida e desertica in estate. Laggiù si staglia
Santa Cesarea, brutta quanto basta a vederla tutta costruita quasi senza senso.
Il bar porta una scritta fuori in ebraico. Sono passati gli ebrei anche da qui
ai tempi della guerra e delle dittature, ed hanno lasciato il segno quasi come
a Santa Maria al Bagno. Questa terra è stata la loro terra in quel tempo. Porto
Miggiano però ora è una distesa di piscine là sopra, piscine che guardano il
mare. Che trovata, che ingegno, che schifezza! E’ come avere pasta trafilata la
bronzo pronta da cuocere e andare al MC Donalds.
Ci andavo nella cava vicino al mare, ora incombe un
ristornate che è immenso, che quando ci entri dentro vedi quattro bicchieri di
fronte ad ogni piatto e tante posate che quando mi siedo a tavola non so mai da
dove diavolo iniziare. Che è arredato come le signore arricchite si addobbano
al punto di sembrare alberi di Natale. A volte le guardi e aspetti la lucina
che si accende… si spegne…si accende…si spegne… Manca il cappellino a forma di
puntale e i pacchi accanto.
“Le cose costose di pessimo gusto” probabilmente le
chiamerebbe Fogazzaro.
Ma Salento è Salento, fichi e rusciuli. E poi abbiamo
raccolto le niete (bietoline selvatiche) per buttarle in una pentola d’acqua
bollente e mangiarle. “Che ci fai in Salento? Lecce non mi piace” mi dice la
signora leccese che scalpita mentre affoga dentro la sua pensione e i suoi
dubbi esistenziali, magari con un rapporto inquieto con il marito, sicuramente
con sé stessa. “Preferisco il nord” continua. “E vacci al nord, è la tua terra
anche là”. Solo che non ci sta il barocco, neppure il mare ci sta. Vacci e
lasciami qui a guardare Sant’Oronzo sulla sua colonna. Lui, il santo che tale
non era, non fosse stato per il vescovo che pose fine allo scempio di santi
patroni (diciotto) che Lecce annoverava per far concorrenza a Napoli. L’ultimo
doveva essere Gennaro, fu Oronzo.
Ho imparato anche questo ieri sera ascoltando Giovanna che
parlava (timida timida timida) dello stemma di Lecce e di Sant’Irene. La santa
che era patrona, prima, poi venne quasi declassata. I Teatini e i Gesuiti vantavano
il possesso delle sue reliquie e spaccarono la città in due. Da Santa contro le
pestilenze venne declassata a Protettrice dai fulmini. Si erano persino
inventati la sua nascita a Lecce prima. Poi Oronzo, leccese lui si, venne
adottato e mai rimesso in discussione. Lui con Giusto e Fortunato. Irene, boh,
chissà che fine ha fatto. M non era mica
leccese, arrivava dai paesi “incivili”.
“Macchiato il caffè?” mi chiede Antonio che ogni giorno mi
fa un caffè macchiato. Però si informa prima, vuoi mai che cambi idea questo
settentrionale?
Chissà se anch’io ho un santo protettore. Una volta avevo un
angelo custode, cosa avesse da custodire mai l’ho capito, forse per questo l’ho
licenziato (nel senso di dare licenza) e lasciato libero di custodire tesori altri,
diversi. Di sicuro non è andato a proteggere Porto Miggiano, neppure Santa
Cesarea terme. Forse aveva urgenze più impellenti. Forse voleva aiutare Santa
Barbara a mettere missili armati sugli aerei come vuole il ministro della
guerra. Ahi ahi ahi torna, incombe, si infratta per un attimo e rinasce dalle
sue ceneri la politica senza polis.
Questa terra è la mia terra…. Bodini il poeta, e Verri hanno
scritto versi. Vito Antonio Conte scrive poesia disincantata squarciando pagine
con parole dirette, che arrivano dove anche io le capisco. La giovane salentina ha vinto un premio
letterario con un libro che forse mai leggerò, ho visto una presentazione ed ho
capito che non è il genere che amo. Però l’ho votata per il concorso…. In fondo
questa è anche la sua terra (soprattutto la sua, io sono ospite) e l’hanno
votata in tanti. Perché Salento non sono solo auto che si infiammano d’amore o
di benzina, è anche caparbia appartenenza. “Non toccare il Salento a un
salentino, si offende” mi si dice. Annuisco, ci credo. Anche se poi si lamenta,
il salentino, perché altri salentini non amano la sua terra come dovrebbero. E la
città racconta dei fili che incombono su Lecce come una ragnatela, di strade
con buchi. Mi dice di quelli che contano, che sono qualcuno ma che non sanno
parlare un italiano decente. E poi quel botto nella notte, un’esplosione nel
palazzo come neppure i fuochi la notte
di sant’Oronzo o di capodanno. E il giornalaio che mi allunga il giornale e un
sorriso. E la signora che ogni mattina come andare a messa va dal mio tabaccaio
di fiducia a spendere 2 euro per vincere grattando un foglietto di carta.
Questa è la mia terra, la rivendico, questa è terra del mondo intero. Ci
possiamo sedere tutti quanti nelle poltrone di questo teatro del mondo.
Dovremmo poterlo fare. Però se scade il passaporto non ti fanno entrare in
mondi altri, diversi. Quasi come fossero solo loro. Però se arrivavano barconi
carichi di sguardi li cacciava via, il governo del fare, quasi come se queste
terre fossero solo loro. Come i feudatari. Come i latifondisti dell’Arneo. Come
gli incivili.