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domenica 4 marzo 2012

Questa terra è la mia terra


Ogni volta che mi chiedono cosa diamine faccio in Salento mi viene in mente n libro: “Questa terra è la mia terra”, è di Woody Goothrie,  Hal Ashby lo traspose in film. Ancora non siamo nelle stesse condizioni della grande depressione degli USA, dei viaggi scroccati in treni merci, non ancora, anche se sembra incombere il tempo in cui saremo “depressi”. E’ il titolo ad essere evocativo. Per chi come me vede i confini come inutili orpelli, sogna il momento in cui un senegalese o un marocchino possano arrivare in Italia con naturalezza, senza il passaggio umiliante da questure e prefetture, e il momento in cui si possa avere un solo passaporto ed un ordine mondiale che metta avanti a tutto il diritto delle persone a vivere, è facile sentirsi a casa propria anche a mille chilometri di distanza. Arrivi in Salento e ti trovi a guardarti attorno, a respirare barocco, scirocco e  tramontana. Però poi abbassi lo sguardo e, ahimè, ahinoi, vedi rifiuti ai bordi delle strade…. Ma questa è altra storia, è storia dannata, è storia salentina e non solo. Passeggiavo con amici al primo sole di primavera, eravamo nei pressi di San Foca e pochi pescatori stavano lì. C’era aria di uscita dal tunnel dell’inverno. Che poi non è mica così male la stagione fredda, ci sono rape e cicorie. Però l’estate è l’estate, ti fa volare. Stavo a Castro l’altro giorno, con amici che avevano da fare là. Ho passato un inverno nella pacata calma di Castro marina. Scendere in piazzetta quando ancora era piazzetta, prima del crollo che l’ha ferita a morte, quasi come Cyrano colpito a tradimento per la sua piuma sul cappello che significava “non ci sto”, scendere nelle mattinate di gennaio e passare alla Chianca a prendersi un caffè, poi leggere il giornale là fuori, sulle seggiole del bar quando non pioveva e il vento lo permetteva. E commentare con chi arrivava e si fermava. Perché dopo pochi giorni diventi parte del luogo. “Lei non è di qui….” “diamoci del tu, mi fa sentire meno vecchio” così diventi amico di tutti. Così questa diventa la mia terra.  E leggo quelli che scrivono di ieri o del secolo scorso usando a volte parole coeve al tempo che descrivono. “Le vecchie cose di pessimo gusto” diceva Fogazzaro. Non tutti, non tutti, alcuni hanno parole che vanno diritte al cuore senza passare per il cervello che le attualizzi. “Che ci fai in Salento?” “guardo il mare e sento i profumi…” poi ascolti i politici che parlano di politica, poi ascolti una sirena… Nulla sono i vigili del fuoco che spengono un’auto, “la polizia indaga” diranno i giornali. Poi leggo la mail degli amici che fanno politica e che vogliono la campagna elettorale impegnata per la città, e mi chiedo perché. Mi sta annoiando la politica da quando la polis è uscita dalla finestra come quel marito che disse “vado a comprare le sigarette”. Che c’entra la polis con Castro marina? Molto, tanto, qualcosina. Ed ora che scrivo se la politica mi annoia? Parlo del mare che scava le rocce? Parlo delle torri costiere? Parlo delle contaminazioni culinarie? E facciamo poesia allora. Io che ho sempre guardato con sospetto i poeti, perché loro sono capaci di mettere assieme quattro parole e parlarti del mondo intero, emozioni, sensazioni, sentimenti.     
Che c’entra la polis con Porto Miggiano? La strada è emozione allo stato puro, colline di pietre, il mare là sotto, blu e verde. Terra quasi verde in inverno, arida e desertica in estate. Laggiù si staglia Santa Cesarea, brutta quanto basta a vederla tutta costruita quasi senza senso. Il bar porta una scritta fuori in ebraico. Sono passati gli ebrei anche da qui ai tempi della guerra e delle dittature, ed hanno lasciato il segno quasi come a Santa Maria al Bagno. Questa terra è stata la loro terra in quel tempo.   Porto Miggiano però ora è una distesa di piscine là sopra, piscine che guardano il mare. Che trovata, che ingegno, che schifezza! E’ come avere pasta trafilata la bronzo pronta da cuocere e andare al MC Donalds.
Ci andavo nella cava vicino al mare, ora incombe un ristornate che è immenso, che quando ci entri dentro vedi quattro bicchieri di fronte ad ogni piatto e tante posate che quando mi siedo a tavola non so mai da dove diavolo iniziare. Che è arredato come le signore arricchite si addobbano al punto di sembrare alberi di Natale. A volte le guardi e aspetti la lucina che si accende… si spegne…si accende…si spegne… Manca il cappellino a forma di puntale e i pacchi accanto.
“Le cose costose di pessimo gusto” probabilmente le chiamerebbe Fogazzaro.
Ma Salento è Salento, fichi e rusciuli. E poi abbiamo raccolto le niete (bietoline selvatiche) per buttarle in una pentola d’acqua bollente e mangiarle. “Che ci fai in Salento? Lecce non mi piace” mi dice la signora leccese che scalpita mentre affoga dentro la sua pensione e i suoi dubbi esistenziali, magari con un rapporto inquieto con il marito, sicuramente con sé stessa. “Preferisco il nord” continua. “E vacci al nord, è la tua terra anche là”. Solo che non ci sta il barocco, neppure il mare ci sta. Vacci e lasciami qui a guardare Sant’Oronzo sulla sua colonna. Lui, il santo che tale non era, non fosse stato per il vescovo che pose fine allo scempio di santi patroni (diciotto) che Lecce annoverava per far concorrenza a Napoli. L’ultimo doveva essere Gennaro, fu Oronzo.
Ho imparato anche questo ieri sera ascoltando Giovanna che parlava (timida timida timida) dello stemma di Lecce e di Sant’Irene. La santa che era patrona, prima, poi venne quasi declassata. I Teatini e i Gesuiti vantavano il possesso delle sue reliquie e spaccarono la città in due. Da Santa contro le pestilenze venne declassata a Protettrice dai fulmini. Si erano persino inventati la sua nascita a Lecce prima. Poi Oronzo, leccese lui si, venne adottato e mai rimesso in discussione. Lui con Giusto e Fortunato. Irene, boh, chissà che fine ha fatto.  M non era mica leccese, arrivava dai paesi “incivili”.
“Macchiato il caffè?” mi chiede Antonio che ogni giorno mi fa un caffè macchiato. Però si informa prima, vuoi mai che cambi idea questo settentrionale?
Chissà se anch’io ho un santo protettore. Una volta avevo un angelo custode, cosa avesse da custodire mai l’ho capito, forse per questo l’ho licenziato (nel senso di dare licenza) e lasciato libero di custodire tesori altri, diversi. Di sicuro non è andato a proteggere Porto Miggiano, neppure Santa Cesarea terme. Forse aveva urgenze più impellenti. Forse voleva aiutare Santa Barbara a mettere missili armati sugli aerei come vuole il ministro della guerra. Ahi ahi ahi torna, incombe, si infratta per un attimo e rinasce dalle sue ceneri la politica senza polis.
Questa terra è la mia terra…. Bodini il poeta, e Verri hanno scritto versi. Vito Antonio Conte scrive poesia disincantata squarciando pagine con parole dirette, che arrivano dove anche io le capisco.  La giovane salentina ha vinto un premio letterario con un libro che forse mai leggerò, ho visto una presentazione ed ho capito che non è il genere che amo. Però l’ho votata per il concorso…. In fondo questa è anche la sua terra (soprattutto la sua, io sono ospite) e l’hanno votata in tanti. Perché Salento non sono solo auto che si infiammano d’amore o di benzina, è anche caparbia appartenenza. “Non toccare il Salento a un salentino, si offende” mi si dice. Annuisco, ci credo. Anche se poi si lamenta, il salentino, perché altri salentini non amano la sua terra come dovrebbero. E la città racconta dei fili che incombono su Lecce come una ragnatela, di strade con buchi. Mi dice di quelli che contano, che sono qualcuno ma che non sanno parlare un italiano decente. E poi quel botto nella notte, un’esplosione nel palazzo come neppure i  fuochi la notte di sant’Oronzo o di capodanno. E il giornalaio che mi allunga il giornale e un sorriso. E la signora che ogni mattina come andare a messa va dal mio tabaccaio di fiducia a spendere 2 euro per vincere grattando un foglietto di carta. Questa è la mia terra, la rivendico, questa è terra del mondo intero. Ci possiamo sedere tutti quanti nelle poltrone di questo teatro del mondo. Dovremmo poterlo fare. Però se scade il passaporto non ti fanno entrare in mondi altri, diversi. Quasi come fossero solo loro. Però se arrivavano barconi carichi di sguardi li cacciava via, il governo del fare, quasi come se queste terre fossero solo loro. Come i feudatari. Come i latifondisti dell’Arneo. Come gli incivili.  

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