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sabato 26 novembre 2011

Salvemini va in strada








Carlo Salvemini e Lecce 2.0dodici escono dal chiuso delle Cantelmo per andare in strada. Fuori è decisamente meglio. Si parla con le persone che stanno, la città si vive camminandoci dentro, i problemi si vedono calpestandoli. Soprattutto la campagna elettorale ha necessità di un confronto diretto. Carlo è partito per tempo ed ha preparato il terreno per le primarie e soprattutto per scardinare il governo straccione delle destre che Lecce non merita. Le vicende legate al filobus, a via Brenta e al disavanzo che le amministrazioni hanno causato saranno complesse da affrontare e risolvere. Tuttavia la prima fatica deve essere rivolta proprio ai bisogni e alle necessità dei cittadini. Lecce deve essere una città vivibile, ciclabile, pedonalizzata. Non deve terminare con il centro storico, ma deve portarne la bellezza fuori da Porta Rudiae e dalle altre porte. Questo è il senso del cammino che partirà sabato e proseguirà fino alle primarie che saranno un nuovo inizio di programmazione per una nuova e illuminata amministrazione.

Gli appuntamenti:

Oggi, sabato, alle 16.30 presso il salone parrocchiale della Chiesa di Santa Maria dell’Idria.
Una camminata di quartiere, tra gli abitanti. Per vedere insieme a loro e raccogliere le cose più importanti con chi le vive ogni giorno e scambiare osservazioni, problemi, idee, ricordi, speranze. Per un flusso di informazioni continuo, ricco di spunti e confronti. Che si conclude con un focus di partecipazione nello spazio antistante Porta Rudiae.

Domenica alle ore 9.00 dal Liceo artistico di via Vecchio Copertino camminando per toccare i punti più significativi della proposta progettuale.

Lunedi alle 18 sempre nel salone della Chiesa di Santa Maria dell’Idria. Per la consegna ai partecipanti interessati di un report conclusivo di questa prima esperienza.

venerdì 25 novembre 2011

Diritti agli immigrati e governi di destra


Il Comune di Reggio Emilia ha provveduto ad inviare ai cittadini stranieri residenti da anni una lettera in cui li informava di un diritto sancito dalle leggi italiane per poter ottenere la cittadinanza.
Una richiesta in tal senso è stata inviata al Sindaco della Città di Lecce il 20 maggio scorso, per iniziativa dell’associazione Lecce2.0dodici, perché l’Amministrazione Comunale si facesse carico di informare su leggi sconosciute ai più. Inutile dire che il Sindaco, probabilmente troppo preso a spingere i filobus che non vogliono partire, ha pensato bene di non degnare di una risposta i richiedenti. Questo il testo della lettera:

Gentile Sindaco,
l’Italia ospita quasi un milione di minori di origine straniera nati o vissuti qui sin da piccoli. Ci sono  ragazzi, anche nella nostra città, che condividono i percorsi, i sogni, le paure e le speranze dei loro coetanei.
Accoglierli con tutti i diritti nella comunità nazionale non sarebbe soltanto giusto, ma potrebbe significare mettere in moto il più grande ed efficace processo di mediazione culturale nel Paese. Il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia offre uno stimolo particolare per riflettere su come sia possibile e doveroso arricchire l’idea di cittadinanza. Sono proprio questi ragazzi, infatti, che potranno essere i protagonisti di un’Italia nuova, aperta, accogliente e responsabile: sarebbe il regalo più bello per i suoi 150 anni.
La normativa attuale offre un piccolo spiraglio in questo senso. Si tratta dell’art. 4, comma 2, della legge 91/92, che recita: “Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data”.
Con questi requisiti, l’interessato può fare la dichiarazione di acquisto, che richiede unicamente la presentazione del passaporto per dimostrare la cittadinanza di origine, cui seguirà l’acquisizione da parte dell’ufficio di Stato Civile della certificazione anagrafica.
Si tratta di un iter non difficile ma poco pubblicizzato e, quindi, spesso ignorato dagli stessi interessati. Per questa ragione, e per la grande importanza che i nuovi cittadini possono rivestire per la nostra comunità, Le chiedo di scrivere loro in tempo utile – prima cioè del compimento della maggiore età – per rendere nota questa possibilità.
Nella speranza di un Suo positivo riscontro porgiamo cordiali saluti.

È di questi giorni invece la dichiarazione del Presidente Napolitano che definisce “una follia” non concedere la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia. La questione è apertissima. Ci sono cittadini del mondo che sono arrivati da noi da decenni e non hanno altro diritto se non quello di aumentare il nostro amato e riverito PIL, tuttavia partiti di governo insistono pervicacemente nel volerli ghettizzare. Emblematica da questo punto di vista la reazione scomposta di un leghista della prima ora, noto alle cronache per le sue intemperanze filo razziste, tal Gentilini Giancarlo, vicesindaco di Treviso, che ha perso un’ottima occasione di tacere dichiarandosi:
«completamente contrario, su questo io censuro anche il presidente della Repubblica». «In caso di espulsione  io come sindaco dove tengo i minori? Finiremmo per avere in Italia migliaia di giovanotti senza genitori, espulsi in quanto autori di qualche reato. È una questione di sanità gestionale: se vogliono legiferare in questo modo, partono con il piede sbagliato, questa è cattiva amministrazione». Per Gentilini, «sta bene la Lega all'opposizione: bisogna opporsi a questo buonismo, questo permissivismo, lo Stato italiano deve essere uno Stato di diritto, non andare dove porta il vento. Io spero che il vento del Nord torni di nuovo a spirare».
Sull’essere uno Stato di Diritto scivola miserevolmente. Quale diritto? Per chi se non per coloro che in Italia nascono e lavorano e vivono da decenni? E come la mette il vicesindaco con i lavoratori stranieri che portano avanti la nostra nazione? In realtà, come il più sublime razzismo insegna, si mettono davanti ai milioni di immigrati che lavorano, quelli che delinquono. Una risposta emblematica è comparsa su un forum che ne parlava:                                                                                                    
“Ma perche? quando si parla di dare la cittadinanza agli extracomunitari si mette in primis la foto di bambini a scuola e non di uno stupratore,rapinatore,spacciatore, no che siano tutti cosi' ma una buona parte si. Noi di famiglia siamo ex emigranti in svizzera e dopo 14 anni di lavoro (serio lavoro)di residenza,e di convivenza con persone molto chiuse ma molto civili, non c'è stata nessuna cittadinanza nemmeno per me che sono nato e ho vissuto li per tre anni. BASTA CON QUESTO BUONISMO FALSO E IPOCRITA.”                                                                                                                                   
Sarebbe facile rispondere al delirio del signor Antonio, come si firma il razzista, che parlando di italiani si potrebbe mettere in primis la foto di Totò Riina. Facile quanto stolto e idiota. Il problema si pone effettivamente in un’Italia che, piaccia o meno ai trogloditi in verde, è nei fatti una nazione multietnica. Una nazione che esce finalmente dal provincialismo. Peccato che il voler negare la storia sia la novità più eclatante di una nuova classe politica improvvisata e cialtrona. Quale popolo europeo conta più emigranti di noi? In particolare concittadini del signor (?) Gentilini. È facile ed è un populismo di bassa lega (nomen homen) voler generalizzare: un immigrato stupra, quindi gli immigrati sono stupratori. E se tutte le persone di buon senso si organizzassero per informare i cittadini immigrati sui loro diritti acquisiti? Ognuno come può, singolarmente, come associazioni, come enti. Seppelliamo gli xenofobi e i sindaci distratti che scordano di rispondere alle lettere sotto montagne di informazioni a chi ne ha bisogno.  Si potrebbe fare opera di democrazia diretta. Dove non vogliono arrivare i rappresentanti del popolo, arrivino le persone tutte.        

giovedì 24 novembre 2011

inondazioni, morti e De andrè

Ancora acqua, in Sicilia oggi. Domani dove in questa Italia maltrattata? Ricordiamo le alluvioni con Fabrizio che proprio dopo una delle tante inondazioni di Genova scrisse questa stupenda canzone.




ilsussidiario.net




Dolcenera       (http://www.youtube.com/watch?v=MZZoZ8eLWY4)


Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

Guardala che arriva guarda com'è com'è 
guardala come arriva guarda che è lei che è lei 
guardala come arriva guarda guarda com'è 
guardala che arriva che è lei che è lei 

nera che porta via che porta via la via 
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera 
nera che picchia forte che butta giù le porte 

nu l'è l'aegua ch'à fá baggiá 
imbaggiâ imbaggiâ 

Non è l'acqua che fa sbadigliare 
(ma) chiudere porte e finestre chiudere porte e finestre 

nera di malasorte che ammazza e passa oltre 
nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c'è luna luna 
nera di falde amare che passano le bare 

âtru da stramûâ 
â nu n'á â nu n'á 

Altro da traslocare 
non ne ha non ne ha 

ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere 
ché è venuta per me 
è arrivata da un'ora 
e l'amore ha l'amore come solo argomento 

e il tumulto del cielo ha sbagliato momento 
acqua che non si aspetta altro che benedetta 
acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale 
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte 

nu l'è l'aaegua de 'na rammâ 
'n calabà 'n calabà 

Non è l'acqua di un colpo di pioggia 
(ma) un gran casino un gran casino 

ma la moglie di Anselmo sta sognando del mare 
quando ingorga gli anfratti si ritira e risale 
e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
e la lotta si fa scivolosa e profonda 

amiala cum'â l'aria amìa cum'â l'è cum'â l'è 
amiala cum'â l'aria amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

Guardala come arriva guarda com'è com'è 
guardala come arriva guarda che è lei che è lei 

acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti 
acqua per fotografie per cercare i complici da maledire 
acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti 

âtru da camallâ 
â nu n'à â nu n'à 

Altro da mettersi in spalla 
non ne ha non ne ha 

oltre il muro dei vetri si risveglia la vita 
che si prende per mano 
a battaglia finita 
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi 

ha avuto in un giorno la certezza di aversi 
acqua che ha fatto sera che adesso si ritira 
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente 
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore 

atru de rebellâ 
â nu n'à â nu n'à 

Altro da trascinare 
non ne ha non ne ha 

e la moglie di Anselmo sente l'acqua che scende 
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle 
nel suo tram scollegato da ogni distanza 
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza 

così fu quell'amore dal mancato finale 
così splendido e vero da potervi ingannare 

Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

Guardala che arriva guarda com'è com'è 
guardala come arriva guarda che è lei che è lei 
guardala come arriva guarda guarda com'è 
guardala che arriva che è lei che è lei 




De Andrè - Sinan capudan pascià



 SINÁN CAPUDÁN PASCIÁ
(marinaio genovese catturato dai Mori nel XV secolo e
diventato poi Gran Visir con il nome di Sinán Capudán Pasciá)

                                                                 de-andrc3a8
Teste fascië ‘nscià galéa   
ë sciabbre se zeugan a lûn-aa 
mæ a l’è restà duv’a a l’éa
pe nu remenalu ä furtûn-a
intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte
u va ‘nsciù fundu
intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle
u vegne a galla
E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve
se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve
d’allua a cansún l’à cantà u tambûu
e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu
vuga t’è da vugâ prexuné
e spuncia spuncia u remu fin au pë
vuga t’è da vugâ turtaiéu
e tia tia u remmu fin a u cheu
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá
E suttu u timun du gran cäru
c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru
‘na neutte ch’u freidu u te morde
u te giàscia u te spûa e u te remorde
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca
e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca
ghe giu u timùn a lebecciu
sarvàndughe a vitta e u sciabeccu
amü me bell’amü
a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun
ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun
amü me bell’amü
a sfurtûna a l’è ‘n belin
ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à a vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.
E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle u vegne a galla

Teste fasciate sulla galea
le sciabole si giocano la luna
la mia è rimasta dov’era
per non stuzzicare la fortuna
in mezzo al mare
c’è un pesce tondo
che quando vede le brutte
va sul fondo
in mezzo al mare
c’è un pesce palla
che quando vede le belle
viene a galla
E al posto degli anni che erano diciannove
si sono presi le gambe e le mie braccia
da allora la canzone l’ha cantata il tamburo
e il lavoro è diventato fatica
voga devi vogare prigioniero
e spingi spingi il remo fino al piede
voga devi vogare imbuto (= mangione)
e tira tira il remo fino al cuore
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria del Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
e sotto il timone del gran carro
con la faccia in un brodo di farro
una notte che il freddo ti morde
ti mastica ti sputa e ti rimorde
e il Bey seduto pensa alla Mecca
e vede le Uri su una secca
gli giro il timone a libeccio
salvandogli la vita e lo sciabecco
amore mio bell’amore
la sfortuna è un avvoltoio
che gira intorno alla testa dell’imbecille
amore mio bell’amore
la sfortuna è un cazzo
che vola intorno al sedere più vicino
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E digli a chi mi chiama rinnegato
che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro
Sinán ha concesso di luccicare al sole
bestemmiando Maometto al posto del Signore
in mezzo al mare c’e un pesce tondo
che quando vede le brutte va sul fondo
in mezzo al mare c’è un pesce palla
che quando vede le belle viene a galla
Impressioni di ascoltatore.  Dire le cose in un certo modo penetrante, immediato, utilizzare la lingua con un gioco che entra e penetra con un guizzo, senza mediazioni, con poche parole, un concetto che noi “umani” forse spiegheremmo con lunghe pagine, forse questa è la poetica, ed è la forma canzone, dove in pochi minuti si deve narrare una storia che è romanzo, poema, dramma, satira.
“E al posto degli anni che erano diciannove
si sono presi le gambe e le mie braccia
da allora la canzone l’ha cantata il tamburo
e il lavoro è diventato fatica”
Quattro versetti per dire la forza narrativa  e la prigionia, il lavoro che diventa schiavitù, la rabbia impotente.  
Il Cicala  (per la storia Sinan Capudan Pascià),  è un ligure, ovviamente. Però potrebbe essere, anzi, sicuramente è, un salentino, un napoletano, un tarantino, un pescatore di Gallipoli o di Cavi di Lavagna. Non importa di dove sia, quel che conta è che esiste. Qui ed ora, lì ed allora. I turchi invasori, i pirati, i corsari dei mari non sapevano  delle differenze, e in fondo non se ne curavano.
E  diventa mussulmano senza tradire nulla e nessuno, purché la sua testa rimanga dov’è.  Non tranciata da una scimitarra che luccica alla luna. E perché  la vita possa proseguire e, se possibile,  migliorare. Trasformando la schiavitù in riscatto sociale:
E digli a chi mi chiama rinnegato
che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro
Sinán ha concesso di luccicare al sole
bestemmiando Maometto al posto del Signore



Non è cambiato il modo di bestemmiare, in fondo, solo il bersaglio.  Perché la ricchezza luccichi al sole.  E poi, in fondo,  in fondo, il mare è sempre uguale a sé stesso, se ne frega delle differenze e delle schiavitù:
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle u vegne a galla. 

mercoledì 23 novembre 2011

Mino De Santis - Scarcagnizzu


Aspettando il concerto ci sediamo al bar.  Fans arrivano alla spicciolata, si accorgono del registratore e aspettano quieti in disparte, per non disturbare.
Ha l’aria timida Mino, dice parole contate ma decise. E’ un ragazzo quaranticinquenne che ti guarda dritto negli occhi e ti racconta il suo essere, appunto,  “cavaddhru malecarne”, la canzone che apre il suo album, il cavallo che non riconosce autorità al suo padrone, non vuole briglie né carri da trainare, piuttosto pretende di  decidere da solo la strada da fare. E lui, il padrone, tenta invano di ammansirlo in ogni modo, carota e bastone.
E in fondo è anche  “lu cane” dell’altra sua canzone, il randagio che sta bene come sta, anche se la libertà è costosa, spesso dura, non tutti sono disponibili a pagarne i prezzi, è quella cosa  “… che a volte ti fa desiderare una ciotola piena,  anche a costo di essere legato ad una catena e di dover leccare la mano al tuo padrone. Libertà è anche un colpo di tosse e una zecca in testa” mi dice Mino parlando del perfido, apparente benessere che ti rende schiavo. Libertà “è un boccone bollente… e un’immensa casa per chi casa non ha, tutta la piazza della città” così il suo testo.
Per capire le parole delle sue canzoni mi sono fatto aiutare a tradurre,  ahimè non pratico il dialetto salentino,  non mi venne in mente solo De Andrè, soprattutto George Brassens.  Anche lui cantò “Je suis un voyou” [Sono un ragazzaccio]. Simile la vena anarchica, simile sguardo sul mondo.
E di Brassens, mi conferma Mino, ci sono echi nei suoi testi, come di cantautori nobili italiani,   De Andrè, Paolo Conte, quelli che cantano il loro mondo prendendolo, se serve, contropelo, piuttosto che con la raffinata poetica di altri colleghi.
Parliamo con lui  di questo suo primo album: “Scarcagnizzu”.

“Ma è poi vero che sei un anarchico?”
“L’anarchia, come diceva De Andrè, come la nomini non c’è più. Limitiamoci a lasciarla intendere”
“Appartieni al mondo, però nelle tue canzoni ci sono radici profonde come quelle dell’ulivo,  cos’è il Salento?”
“Il Salento è uno stato d’animo, è lento lento lento, ma inizia a muoversi. Devecontinuare a muoversi. Senza esagerare però, non deve perdere la sua magia”.
“Ma il tamburello cosa c’entra?” (Nella sua canzone Salento c’è un verso che dice “e llu tamburieddhru nu ccentra nnu cazzu…” n.d.r.)
“Il tamburello è rimasto per troppi anni il simbolo del Salento, occorre andare oltre. Questa è terra duce e mmara nello stesso tempo.  E’ Emigrazione, vino, olio. Sono le feste patronali e le emozioni”.
“Scarcagnizzu- vento dal basso -  si chiama il tuo primo CD, ma che diavoleria di titolo è?”
“E’ così chiamato un vento estivo che arriva improvviso, quando meno te lo aspetti spazza via quel che trova. Porta per aria immondizia e fiori. Alza le gonne delle signore. Impudico, inatteso, sfrontato e irridente”.
“Una canzone che a molti miei amici è molto piaciuta nel tuo album è “Arbulu te ulie” (albero di olive), nostalgia, ricordi, storia”
“Forse piace perché il Salento è quell’albero. Se gli olivi secolari avessero voce racconterebbero storie buone e brutte, storie d’amore e di ingiustizie, quelle dei padroni che sfruttavano i mezzadri. L’ho scritto pensando a mio padre, lavorava la terra d’altri ed ha sofferto angherie dei padroni del campo che si credevano signori dell’universo”.
“Tutto è cultura pure se cambia la temperatura, dici in una canzone”
“Va di moda etichettare tutto quanto, divertimento, marketing con la parola cultura”.
“E la pizzica?”
“Anche la pizzica è Salento, conservare memoria del passato è vitale e giusto,  però forse occorre dire cose nuove. Il problema è quando la pizzica diventa moda. Il senso del tamburello che non c’entra nulla è proprio questo.”
“Parlami della festa patronale dei paesi, quella che canti facendo fotografie di quel che accade  durante la processione, maggioranza e opposizione seguono la Madonna felici e contenti ”
“La processione è la parte religiosa, dietrola Madonnasfilano tutti quanti, anche i futuri candidati, sorridenti e tronfi che mostrano la loro religiosità spesso pelosa e ipocrita pur di mettersi in mostra. Vestiamoci bene e dimostriamo che “Simu lazzaroni, simu mbruiuni però tutti credenti”. Poi c’è l’aspetto laico delle bancarelle e delle giostre”.
“La malota e lu salanitru, altri animali”
“Lo scarafaggio e il geco, sono due animali bruttini, viscidi, a molti fanno ribrezzo, però non fanno male a nessuno, proprio come molte persone che vengono tenute lontane per il loro aspetto, o la loro appartenenza etnica, ma sono innocue. Giudicare il mondo dall’apparenza porta ad aberrazioni.”
“Racconti favole?”
“Mi piace farlo”
“La canzone Lu moribundu è un’altra metafora?”
“Macchè, sono ricordi di infanzia di vita paesana, c’è l’agonizzante e il paese intero che corre a portare solidarietà, sono flash di vita vissuta. Nella mia canzone ho enfatizzato. Il vecchietto non muore, siede improvvisamente sul letto e manda al diavolo tutti quelli che aspettano da giorni la sua dipartita”-
“Vanne alla Svizzera parla dei salentini che emigrano e quando tornano sono diversi,  In un’intervista sostenevi che migranti si nasce.”
“E’ una canzone controversa, spesso fraintesa. Non è una satira sugli emigranti, anzi. Canto anche stavolta situazioni che ho vissuto. Quando l’emigrante tornava al sud per le ferie e si sentiva in dovere, spesso, di ostentare il benessere ottenuto. Una sorta di riscatto, per troppi anni aveva vissuto malissimo al sud,  altrettanto male in Svizzera, però quando arrivava spesso faceva  i discorsi tipici dell’arricchito, comprarsi la casetta al mare, addirittura prendersela con gli extra comunitari che stanno in Salento. Si innescava, meglio si ostentava, un razzismo alla rovescia. Succede che chi ha subito l’emigrazione sembra faticare a comprendere chi come lui emigra.”
“Progetti?”
“Scrivere, cantare. Far diventare un vero lavoro quello che era un passatempo, scrivo canzoni da quando avevo 17 anni. Da autodidatta.”
“Mi dicono che hai scritto anche una divina commedia”
“Nell’84 cercai di descrivere personaggi reali del mio paese incontrandoli nell’al di là. Non avevano più freni nel parlare, ormai erano andati e potevano liberamente raccontare sé stessi, il paese e il mondo. Situazioni che i miei compaesani saprebbero individuare benissimo”.
“Sei stato al Tenco Ascolta a Bari”
“Si, martedi scorso, un modo per uscire dai confini e farsi ascoltare”.
Scarcagnizzu, un album da ascoltare. Accompagnato da Emanulele Coluccia, sax soprano e percussioni, Valerio Daniele, chitarra acustica, Dario Muci, voce, Mino passa dallo swing al country, accompagna l’ascoltatore in atmosfere musicali piacevoli. Nelle parole si legge tristezza, rabbia e una dolce nostalgia. Per dirla con Mauro Marino “…Ama cantare largo, mischiando gli animali alle persone che tutt’uno sono…”.  Stupenda scoperta dei “ragazzi” del Fondo Verri che hanno creduto, giustamente, in Mino. Ultima cosa e grande pregio, non c’è traccia di pizzica e di taranta nel disco.
Mino De Santis – Scarcagnizzu – Vento dal basso.
Edizione: Associazione Culturale Fondo Verri 
Il cd è distribuito dal Fondo Verri, via Santa Maria Del Paradiso – Lecce
Tel: 0832 304522  327 3246985
LU CAVADDHRU MALECARNE
(testo e musica di Cosimo De Santis)

Camina te sbicu
Calpesta la strada
Con passo ribelle
Criniera scijata
La facce ncazzata
Di chi all’ultimo fiato
Nu cede alli corpi
Te lu scurisciatu.
“Tu sinti nu ciucciu,
nu ssi nu cavaddhru,
si tostu e puntusu
ma ieu mancu su beddhru
e ci nu cangi capu
nu tte llei sti difetti,
li morti te mammata
te fazzu a pezzetti “

E scocca e riscocca
La frusta sul dorso,
« Te quai nu me movu
Mancu pè llu cazzu
Nu ssuntu nu ciucciu
Ca tira e ca raja
E non svendo me stesso
Pè nna mangiata te paja”

“Ha no!? Chi t’à mmortu
nun b’oi cu tte moi ?
E mmo fazzu cu biti
le mazzate ca proi
e tira squajatu
tira stu trainu
ca lu mese ci trase
ghete santu Martinu.”

“Nu ttiru nu mollu
e mme poti scannare
ma ieu su malecarne
nu mme poti tumare
ieu caminu ci oiu
cu mme fazzu nu giru
ma te poti sgolare
lu trainu nu tiru.”

“Li morti ca teni
Na cu sbocchi lu sangu
Tie si nnatu cu tiri
E ieu cu tte mmantegnu
E camina animale
Che se fai il tuo dovere
Te lu cantu lu cantu
Te lu trainiere. »

« Te qquai nu mme movu
mancu cu lla banda
la mia volontà
è quella che conta
e ghe inutile ccerchi
cu mme piji cu llu bonu
io son malecarne
son quello che sono.”

“Ah poveru minchia
ci rriane alla staddhra
facia cu tte ngroppi
la meiu cavaddhra
ddra bella sciumenta
bianca e immacolata
ca alla fera te quannu
me l’aggiu ccattata.”

“Ieu su malecarne
Nu mme piace ffaticu
Ma fra lle sciumente
Suntu propriu nu mitu
E ddra bella sciumenta
Bianca e immacolata
Ci ho tte ticu lu ggiustu
Già me l’aggiu passata”

Cullu hai e cu llu hoi
Topu tante mazzate
Rriara alla staddhra,
misera tò sciurnate
ma pè lli malecarni si sa
ca la vita ghe breve
mò nda naddhru alla via
ca cu tira nun bole.


martedì 22 novembre 2011

Sulla Nutella


 18 aprile 2011, muore per malore Pietro Ferrero, il nipote della Nutella.

20 aprile 1964, il primo barattolo di crema al gianduia e nocciole  viene messo in vendita. Evoluzione delle “supercrema” e della “pasta Giandujot”. Immediato fu il successo delle Nutella, tanto che, a fronte di una norma della Comunità europea contro l’obesità, nel 2010  venne creato il comitato “Giù le mani dalla Nutella”, sostenuto dalla Regione Piemonte.

Il cioccolato in sé già divideva il mondo da secoli: “Il mondo si divide in: quelli che mangiano il cioccolato senza il pane; quelli che non riescono a mangiare il cioccolato se non mangiano anche il pane; quelli che non hanno il cioccolato; quelli che non hanno il pane”. (Stefano Benni)



La Nutella è invece entrata con forza e immediatezza nell’immaginario collettivo. Da quello giocoso a quello erotico. Da sempre la si utilizza   per placare rabbie e tensioni, come antidepressivo naturale, come scelta politica, come seduzione, è stata recitata e cantata come nessun altro alimento prima :

 “Se la cioccolata svizzera è di destra, la Nutella è ancora di sinistra” (G. Gaber) .

“Provare le ricette, collaudare la cucina, usare la Nutella, usare farina” (Negrita) .

“Lanutella di tua sorella” (Ivan Graziani con Renato Zero) che recita fra l’altro: “Un massaggino tu mi devi fare un massaggino se tu mi vuoi bene un massaggino tu mi devi fare sì, però con la nutella….”


Ma il poema epico più serio è stato scritto da Riccardo Cassini

Nutella omnia divisa est in partes tres:
Unum: Nutella in vaschetta plasticae.

Duum: Nutella in viteris bicchieribus custodita.

Treum: Nutella sita in magno barattolo (magno barattolo sì, sed medium est si magno Nutella IN barattolo).

Nutella placet omnibus pueris atque puellis sed, si troppa Nutella fagocitare, cicciones divenire, cutaneis eructionibus sottostare et brufolos peticellosque supra facie tua stratos formare atque, ispo facto, diarream cacalleramque subitaneam venire.
Propterea quod familiares, et mamma in particulare, semper Nutella celat in impensabilis locis ut eviteant filiis sbafare, come soliti sunt.

Sed domanda spontanea nascet: si mamma contraria est filiales sbafationes, perché Nutella comprat et postea celat?
Intelligentiore fuisse non comprane manco per nihil…sed forse mammae etiam Nutella sbafant: celatio altrui non est vendetta trasversalis materna propterea quod ea stessa victima fuit, sua volta, matris suae.
“Sic heri tua mamma Nutella celavit, sic hodie celis filiis tuis”.

Sed populus totus cognoscit ingenium puoerorum si in ballo Nutella est: vista felinos similante habent ut scruteant in tenebris credentiarum; manes prensiles aracnidarum modo ut arrampiceant super scaffalos sgabuzzinarum; olfactum caninum-canibus superior- per Nutellam scovare inter mucchios anonimarum marmellatarum fructarum.

Memento semper: filius, inevitabile, nutella scovat sed non semper magnat.
Infactum, fruxtratione maxima filii si habet quando filius scovat barattolorum sed hoc barattolus novus atque sigillatus est, propterea quod si filius aprit et intaccat barattolum intonsum, sputtanatus fuisse!
(Eh!Erat novus…).
Hoc res demonstrat omnibus mammis nascondimentos novorum barattolorum Nutellae fatica sprecata esse.

Non fruxtatione maxima, sed notevolis incavolatio si habet si filius ritrovat barattolorum quasi vacuum, giusto minima cum nutella et alcunam partem manducare non potest quod barattolum vacuum buttatum fuisse ab mamma, non conservatum, inde semper minimum fondum Nutellae rimanendum est.
Hoc res demonstrat omnibus mammis nascondimentos quasi vacuorum barattolorum Nutellae ulteriore fatica sprecata al quadratum esse.

Unica possibilitas felicitatis filii est rinvenire barattolorum medio vacuum et medio plenum, in hoc modo dues o tres cucchiailli Nutellae videantur sbafandi sunt.
Sed, post sbafationem, ad editandum sgamati esse mamorandae sunt smucinatio atque mischiatio Nutellae rimastae ut si fingeat nemo toccavit nemo magnavit.
Etiam, primariae imoportantiae res, cucchiallus lavare asciugareque ne tracciam ullam lasciare.

Hac termia ipotesis unica ragione est pro fatica mammarum, sed ulteriores domandae spontanea nascunt.
Ne valet la penam?Hoc casinus toto per tres cucchiaillos fetientos Nutellae ?Qui ve lo fecit fare ?
Et, postea, postea, non vi lamentatis si filii, provati astinentiarum Nutellarum, drogaturi sunt!
Ullae lacrimae coccodrillarum accettatae sunt: non diciate non avvertendi non fuissimus.
Salutiis bacisque
Caius Julius Ferrerus