“Che
cos’è un lago, Maurice?” “è un fiume che si è addormentato ed ha sognato di
diventare mare” “Perchè non c’è riuscito?” “Non tutti i sogni durano abbastanza
a lungo”…
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Antonietta De Pace |
E’ una citazione trovata on line. Già la
riportai in altre epoche, e su altre pagine. Però ogni tanto ritorna, mi
accompagna. Perché fiumi laghi e mari sono costantemente indispensabili per me.
Non si tratta della necessità fisiologica dell’acqua, è altra cosa, forse più
inutile? L’acqua così penetrabile e
avvolgente, così dolce e fresca, che seduce ed inquieta,perché lei erode anche
le rocce. Nelle litoranee salentine, gli scogli hanno tutti un profondo incavo dove batte il
mare. Eppure mi prende e mi culla, mi
ammalia ed affascina. Ed il fiume che diventa lago e sogna di diventare
mare, forse oceano, che sa di potercela
fare a mutare la fisionomia del Salento
come della Liguria, quel fiume dove vola? Ah le contraddizioni, un fiume non sa
volare come il gabbiano.
Il cane che ci seguiva ieri notte,
mentre camminavamo in riva al mare, forse era già un lago, forse solo un
ruscello. Forse voleva semplicemente capire se lo meritavamo, se poteva
concederci il privilegio della sua compagnia silenziosa.
E un torrente che mi è caro e che
scalpita, a volte si lascia andare e mi dice “potessi essere in un pizzo di
mondo dove non debbo prendere decisioni, dove posso vivere di quel che sento e
vedo…” e mentre lo dice sta pensando a quale decisone prendere. Vorrebbe vivere
un sogno, però lei sa che sta correndo verso il mare. Forse è già mare. “In
calle mai più…” cantava Vecchioni. Già, in calle mai più si sogna, ma si vive.
E il sorriso dell’anziano che parla
pacatamente e racconta delle tabacchine di un tempo, piuttosto che di
quell’agrario illuminato che trattava bene i suoi salariati, prima era silenzioso sulla sua panchina, poi
si è lasciato andare… come un fiume carsico. Sotto quel sorriso scalpita un torrente imponente e fiero. E’ sufficiente
una domanda per vederlo tornare su, dove batte il sole dei ricordi e
dell’indignazione.
E chi ha fatto quella scritta “meno
stress più farfalle” su un muro non ricordo dove, era sicuramente una cascata
che sconvolge chi sta sotto. E’ un peccato se finirà in un pacato laghetto
silenzioso e fermo, se non riuscirà a diventare “mare oceano”.
E dell’acqua più pura portava il nome un
immenso mare che è stato affogato con una colata di cemento. Apparente contraddizione:
affogare un mare. Però si può. Qualcuno ci riesce. Purtroppo ci riesce. Era una
donna con una stupenda, bellissima rabbia dentro. Contro la stupidità.
Lei era già un mare tumultuoso, stava
per diventare oceano. Non sognava più, si era svegliata dal torpore che stava
pervadendo tutti quanti. Baciata dalla brezza marina di Porto Selvaggio. Si
chiamava Renata Fonte.
E ancora mille rivoli e altri mille.
Piccoli, caparbi e determinati a scendere, a farsi la strada. Poco importa se
qualcuno li argina e li devia, si riprendono poco per volta il cammino che la
natura impone loro di seguire. Quelli che “non ci stanno”. Così diversi dalle
pozzanghere, da quelli che dicono “così è … rassegnamoci”.
Un fiume apparentemente pacato e calmo,
ma costante nella sua discesa verso il mare, ha costretto gli addetti ai lavori
a salvare una torre in territorio neritino. Chissà a che punto stanno i lavori.
Perché una torre non è solo un cumulo di carparo o pietra leccese, neppure di
tufo. E’ un pezzo di storia che ci riguarda tutti quanti. Senza quella torre e
tutte le altre torri sorelle, la storia del Salento sarebbe stata diversa,
altra. Ah il pacato dottor Gaballo….
Altri fiumi ad altri laghi. Giangiacomo
dell’Acaya, valente architetto e costruttore della città fortificata più
importante, l’antica Segine, era un fiume, costruiva e progettava. La diga che
lo fermò venne progettata dalle sue stesse mani, prima di essere chiamato ad
altri impegni e di passare i progetti al costruttore Guarino Renzo. Proprio in
una cella di quelle mura che aveva progettato morì prigioniero nel castello di
Lecce. Quando il destino è baro….
E poi lei, una delle signore dell’unità
d’Italia. Lei che entrò a fianco di Garibaldi a Napoli, una di due donne in
quell’impresa. Era il 7 settembre 1860. Dopo
l’ingresso trionfale, Garibaldi decretò:
“Si accordano ducati 25 al mese, vita durante, ad Antonietta De Pace, per i danni e le sofferenze patite per causa
di libertà".
Nell'agosto del 1891 tornò nella sua
Gallipoli anche per la pesca notturna. Morì fra le braccia del marito il 4
aprile 1893 a Portici. Lei che aveva sopportato la detenzione in uno stanzino
di un metro quadro per 15 giorni senza parlare né denunciare, che non si fece
piegare. Il commissario Campagna non ottenne nessuna dichiarazione nonostante l’avesse
tenuta sempre sveglia in condizioni pietose.
Una donna/oceano anche questa. Non certo
un torrentello di vallata. Il sogno, per lei come per la Fonte, non c’era più,
era diventato realtà. Per altri era un incubo. Ma gli altri erano melmose
pozzanghere putrefatte.
Ed in apparente contraddizione con la De Pace fu un altro fiume impetuoso.
Apparente, perché Antonietta voleva un più luminoso avvenire per l’Italia.
Mazziniana e avanti nel tempo, immaginando una democrazia ed una liberazione
dal regno del Borboni, certo, ma anche dalla miseria e dalla povertà. Le lotte
di liberazione a volte si infrangono contro loro stesse. E’ successo spesso che
una rivoluzione vinta trasformasse i nuovi potenti in nuovi schiavisti. Forse,
se fosse vissuta più a lungo, Antonietta avrebbe dialogato e ragionato con la
bellissima capobanda, la brigante Michelina De Cesare.
«Erano le dieci di
sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte
vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai
soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo
si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da
strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza
di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a
talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva
benissimo nascondersi una persona» come dice un resoconto dell’epoca. Era il 30 agosto 1868. La ‘guida’ dei
piemontesi era suo fratello Giovanni. Lei era bellissima. Una donna
guerrigliera e brigantessa. Michelina de Cesare fu massacrata, e il suo corpo
esposto in piazza come orrido trofeo, nuda. Onta, mancanza di rispetto per il
vinto. Piemontesi come aguzzini si scambiavano gesti di orgogliosa vittoria. Le
genti “liberate” dai borboni erano più umane, migliori, molto, degli aguzzini
di Michelina De Cesare.
Era nata il 28 ottobre del 1841, a
Caspoli una frazione del comune di Mignano Monte Lungo, in provincia di
Caserta. Una bimba irrequieta e “veggente”. Sapeva in anticipo gli accadimenti.
Non era una strega, aveva un forte senso delle cose. Come si era innamorata di
Francesco Guerra non è dato sapere. Lui era il capo della banda del Rafaniello,
ereditata quando il capo, Domenicangelo Cecchino, morì Lei non ci pensò molto.
Sanguigna donna dalle rapide decisioni. Con il fucile a tromboncino, con i
riccioli neri, con lo sguardo penetrante. E quei maledetti piemontesi che
avevano invaso, venuti come occupanti anziché liberatori. Contro quelli
bisognava disperatamente ribellarsi. Michelina. Quel fulmine improvviso che
illuminò il suo nascondiglio.” (Il Brano l’ho saccheggiato da un vecchio numero di Paese
Nuovo)
Già, fiumi, laghi, mari, oceani…. Quante
acque ci circondano, in quanti mari sappiamo nuotare. Perché c’è bisogno di
loro, perché anche se i sogni non durano abbastanza a lungo, poi ne arrivano
altri e altri ancora. In fondo L’utopia
è come l’orizzonte che non raggiungi mai, però “Serve per continuare a
camminare”.