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venerdì 17 giugno 2022

Siccità, dispersione di acqua e mala gestione.

Ph: Pexsels

135 comuni fra Piemonte e Lombardia in emergenza idrica. Secondo l’osservatorio sugli indirizzi idrici del fiume Po, stiamo vivendo la peggior crisi idrica degli ultimi 70 anni. Le cause vanno ricercate nella mancanza di neve sulle Alpi, che “riforniva” il fiume Po che al momento è in quasi siccità, nella carenza di piogge, e soprattutto nella mala gestione della risorsa acqua. E questa crisi, se è emergenziale in alcuni luoghi lo sarà presto in maniera molto più estesa, si parla dei Castelli romani, del Veneto dove sono state già limitate le irrigazioni e di altri luoghi.

Gli eventi estremi sono in continuo aumento, ma i nubifragi, le piogge violente, le grandinate, potrebbero, se gestiti in modo razionale, diventare risorse. L’acqua improvvisa e violenta crea disastri e scivola verso il mare disperdendosi, non si pensa a soluzioni di accumulo, possibili secondo ANBI (Il Fatto Quotidiano) .

Esiste poi il problema enorme e osceno della dispersione di acqua negli acquedotti. “Quando a Bari si tira uno sciacquone, l’acqua compie un tragitto di trecento chilometri con un’alta probabilità di dispersione, oltre al costo energetico altissimo. Bisogna puntare a fare arrivare meno acqua da lontano. Perché se c’è una dispersione fisiologica del 10%, i dati ci dicono che nel nostro Paese ci sono aree dove questa percentuale di dispersione è molto più alta. Questo significa che su dieci litri di acqua disponibili, se ne perdono cento. Non ce lo possiamo più permettere”.

Si parla molto di transizione ecologica, di ridurre emissioni, di PNRR per fare opere, per quanto utili, forse meno indispensabili della razionalizzazione delle acque. Non vorremmo trovarci, come succederà a situazione invariata, con i rubinetti senza acqua la notte, come sta succedendo in alcuni comuni.

Secondo ISTAT si disperdono 3,4 miliardi di metricubi di acqua (42,5%) che non arriva ai nostri rubinetti.

E’ già emergenza, occorre agire anche a livello individuale, adottando tutti quei comportamenti già noti, quanto difficilmente seguiti. Evitare ogni spreco di acqua può aiutare a salvare il pianeta.


mercoledì 15 giugno 2022

Laghi, fiumi, utopie ...

 

“Che cos’è un lago, Maurice?” “è un fiume che si è addormentato ed ha sognato di diventare mare” “Perchè non c’è riuscito?” “Non tutti i sogni durano abbastanza a lungo”…

 

Antonietta De Pace

E’ una citazione trovata on line. Già la riportai in altre epoche, e su altre pagine. Però ogni tanto ritorna, mi accompagna. Perché fiumi laghi e mari sono costantemente indispensabili per me. Non si tratta della necessità fisiologica dell’acqua, è altra cosa, forse più inutile?  L’acqua così penetrabile e avvolgente, così dolce e fresca, che seduce ed inquieta,perché lei erode anche le rocce. Nelle litoranee salentine, gli scogli  hanno tutti un profondo incavo dove batte il mare. Eppure mi prende e mi culla, mi  ammalia ed affascina. Ed il fiume che diventa lago e sogna di diventare mare,  forse oceano, che sa di potercela fare  a mutare la fisionomia del Salento come della Liguria, quel fiume dove vola? Ah le contraddizioni, un fiume non sa volare come il gabbiano.

Il cane che ci seguiva ieri notte, mentre camminavamo in riva al mare, forse era già un lago, forse solo un ruscello. Forse voleva semplicemente capire se lo meritavamo, se poteva concederci il   privilegio della sua compagnia silenziosa.

E un torrente che mi è caro e che scalpita, a volte si lascia andare e mi dice “potessi essere in un pizzo di mondo dove non debbo prendere decisioni, dove posso vivere di quel che sento e vedo…” e mentre lo dice sta pensando a quale decisone prendere. Vorrebbe vivere un sogno, però lei sa che sta correndo verso il mare. Forse è già mare. “In calle mai più…” cantava Vecchioni. Già, in calle mai più si sogna, ma si vive.  

E il sorriso dell’anziano che parla pacatamente e racconta delle tabacchine di un tempo, piuttosto che di quell’agrario illuminato che trattava bene i suoi salariati,  prima era silenzioso sulla sua panchina, poi si è lasciato andare… come un fiume carsico. Sotto quel sorriso scalpita  un torrente imponente e fiero. E’ sufficiente una domanda per vederlo tornare su, dove batte il sole dei ricordi e dell’indignazione.  

E chi ha fatto quella scritta “meno stress più farfalle” su un muro non ricordo dove, era sicuramente una cascata che sconvolge chi sta sotto. E’ un peccato se finirà in un pacato laghetto silenzioso e fermo, se non riuscirà a diventare “mare oceano”.

E dell’acqua più pura portava il nome un immenso mare che è stato affogato con una colata di cemento. Apparente contraddizione: affogare un mare. Però si può. Qualcuno ci riesce. Purtroppo ci riesce. Era una donna con una stupenda, bellissima rabbia dentro. Contro la stupidità.  

Lei era già un mare tumultuoso, stava per diventare oceano. Non sognava più, si era svegliata dal torpore che stava pervadendo tutti quanti. Baciata dalla brezza marina di Porto Selvaggio. Si chiamava Renata Fonte.

E ancora mille rivoli e altri mille. Piccoli, caparbi e determinati a scendere, a farsi la strada. Poco importa se qualcuno li argina e li devia, si riprendono poco per volta il cammino che la natura impone loro di seguire. Quelli che “non ci stanno”. Così diversi dalle pozzanghere, da quelli che dicono “così è … rassegnamoci”.

Un fiume apparentemente pacato e calmo, ma costante nella sua discesa verso il mare, ha costretto gli addetti ai lavori a salvare una torre in territorio neritino. Chissà a che punto stanno i lavori. Perché una torre non è solo un cumulo di carparo o pietra leccese, neppure di tufo. E’ un pezzo di storia che ci riguarda tutti quanti. Senza quella torre e tutte le altre torri sorelle, la storia del Salento sarebbe stata diversa, altra. Ah il pacato dottor Gaballo….

Altri fiumi ad altri laghi. Giangiacomo dell’Acaya, valente architetto e costruttore della città fortificata più importante, l’antica Segine, era un fiume, costruiva e progettava. La diga che lo fermò venne progettata dalle sue stesse mani, prima di essere chiamato ad altri impegni e di passare i progetti al costruttore Guarino Renzo. Proprio in una cella di quelle mura che aveva progettato morì prigioniero nel castello di Lecce. Quando il destino è baro….

E poi lei, una delle signore dell’unità d’Italia. Lei che entrò a fianco di Garibaldi a Napoli, una di due donne in quell’impresa.  Era il 7 settembre 1860. Dopo l’ingresso trionfale,  Garibaldi decretò: “Si accordano ducati 25 al mese, vita durante, ad Antonietta De Pace,  per i danni e le sofferenze patite per causa di libertà".

Nell'agosto del 1891 tornò nella sua Gallipoli anche per la pesca notturna. Morì fra le braccia del marito il 4 aprile 1893 a Portici. Lei che aveva sopportato la detenzione in uno stanzino di un metro quadro per 15 giorni senza parlare né denunciare, che non si fece piegare. Il commissario Campagna non ottenne nessuna dichiarazione nonostante l’avesse tenuta sempre sveglia in condizioni pietose.  

Una donna/oceano anche questa. Non certo un torrentello di vallata. Il sogno, per lei come per la Fonte, non c’era più, era diventato realtà. Per altri era un incubo. Ma gli altri erano melmose pozzanghere putrefatte.

 

Ed in apparente contraddizione con la De Pace fu un altro fiume impetuoso. Apparente, perché Antonietta voleva un più luminoso avvenire per l’Italia. Mazziniana e avanti nel tempo, immaginando una democrazia ed una liberazione dal regno del Borboni, certo, ma anche dalla miseria e dalla povertà. Le lotte di liberazione a volte si infrangono contro loro stesse. E’ successo spesso che una rivoluzione vinta trasformasse i nuovi potenti in nuovi schiavisti. Forse, se fosse vissuta più a lungo, Antonietta avrebbe dialogato e ragionato con la bellissima capobanda, la brigante Michelina De Cesare. 

 

«Erano le dieci di sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona» come dice un resoconto dell’epoca.  Era il 30 agosto 1868. La ‘guida’ dei piemontesi era suo fratello Giovanni. Lei era bellissima. Una donna guerrigliera e brigantessa. Michelina de Cesare fu massacrata, e il suo corpo esposto in piazza come orrido trofeo, nuda. Onta, mancanza di rispetto per il vinto. Piemontesi come aguzzini si scambiavano gesti di orgogliosa vittoria. Le genti “liberate” dai borboni erano più umane, migliori, molto, degli aguzzini di Michelina De Cesare.

Era nata   il 28 ottobre del 1841, a Caspoli una frazione del comune di Mignano Monte Lungo, in provincia di Caserta. Una bimba irrequieta e “veggente”. Sapeva in anticipo gli accadimenti. Non era una strega, aveva un forte senso delle cose. Come si era innamorata di Francesco Guerra non è dato sapere. Lui era il capo della banda del Rafaniello, ereditata quando il capo, Domenicangelo Cecchino, morì Lei non ci pensò molto. Sanguigna donna dalle rapide decisioni. Con il fucile a tromboncino, con i riccioli neri, con lo sguardo penetrante. E quei maledetti piemontesi che avevano invaso, venuti come occupanti anziché liberatori. Contro quelli bisognava disperatamente ribellarsi. Michelina. Quel fulmine improvviso che illuminò il suo nascondiglio.” (Il Brano l’ho  saccheggiato da un vecchio numero di Paese Nuovo)

 

Già, fiumi, laghi, mari, oceani…. Quante acque ci circondano, in quanti mari sappiamo nuotare. Perché c’è bisogno di loro, perché anche se i sogni non durano abbastanza a lungo, poi ne arrivano altri e altri ancora. In fondo  L’utopia è come l’orizzonte che non raggiungi mai, però “Serve per continuare a camminare”.