Ho fatto in un solo giorno due cose che non
faccio abitualmente. Anzi, proprio raramente, la seconda poi…
Prima sono stato ad
accompagnare una persona al cimitero. Ogni volta che ci entro rimango stupito
dallo sfarzo di alcune cappelle monumentali e della gerarchia che vuole i meno blasonati
(socialmente ed economicamente soprattutto) seppelliti in terra. Ogni volta mi
raggiunge sibilante il pensiero dei motti popolari che dicono come “siamo tutti
uguali davanti alla morte”.
Un po’ come (ecco il blasfemo
che arriva) quel souvenir, inno al pessimo gusto non tanto di chi l’ha ideato e costruito, quanto di chi lo
acquista magari ridendoci su, un piccolo water soprammobile con su scritto
(come dimenticare?) “saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui
si siedono son tutti come me”. Ma se un piccolo water può tanto, la morte non
dovrebbe essere regina incontrastata dell’uniformazione? Eppure esorcizziamo
sempre, siccome rimane l’ultimo mistero da svelare, dobbiamo farcene una
ragione e tentare di darle un senso che supera l’umana capacità di comprensione,
soprattutto dobbiamo, si diceva dalle mie parti, “battere la fisica”, mantenere
le posizioni sociali, quasi fosse come morire un po’ meno.
La fede, in fondo, serve
anche a questo, e proprio questa è stata la più grande rivoluzione filosofica
ed etica delle chiese: offrire all’uomo una seconda chance. Ho molto rispetto,
spesso un po’ di invidia, per chi crede, perché raggiunge due scopi: non è mai
solo, non morirà mai. Allora come spiegare quelle lacrime profuse ad ogni
funerale? La vita oltre la morte è più luminosa e più vicina all’infinito, in
fondo. E forse proprio qui sta il gap, infinito è cosa che non ci appartiene,
come non ci appartengono il mai o il nulla. Noi siamo finiti, lo sguardo,
l’udito, i sensi lo sono, hanno un orizzonte da vedere, oltre quello chissà
cosa c’è, ma non fa nulla, noi siamo finiti, tondi, belli.
Per chi, come me, non ha la
ventura di credere all’aldilà, tutto diventa più arduo. Occorre vivere qui ed
ora, occorre finire il finito, godere di quell’orizzonte e fregarsene del
resto. Forse per questo la rabbia di fronte al mondo che gira a rovescio,
perché sappiamo (tutti noi, credenti e non) che non vale la pena far crepare di
fame o guerra delle persone. Che è un crimine etico, politico, morale. Sappiamo
che è comportamento criminale quello di chi vuole respingere immigrati che
hanno fame, roba da processo per tentato genocidio. Invece l’Italia del
mondiale perduto è spaccata su questo fronte. Ed ognuno diffonde il proprio
verbo “in nome del suo Dio”.
Per questo il cimitero mi
pare luogo, pur con le opere d’arte che contiene, di profonda diseguaglianza.
Non ci vado mai perché la vita di chi ci sta dentro è, a parer mio, finita con
l’ultimo suo respiro. E allora mi ricordo sorrisi e sguardi, parole e silenzi.
Non mi va di andare a cercare di immaginare immobilità e fissità e
disgregazione.
Ci sono molti modi per andarsene
e molte culture della morte. Un amico egiziano mi raccontò della sepoltura di
suo padre: “nudo, coperto solo di un sudario, come siamo nati dobbiamo tornare
a Dio”. Mi affascina questo Dio, molto più di quello che ci vuole tutti ben vestiti, con tanto di
cravatta. Mi dicevano amici leccesi che esisteva un negozio di scarpe “anche
per morti”. Metti che non ne avesse un paio degno… Quasi come Dio, nella sua
infinita bontà, altro non avesse da fare che giudicare dall’aspetto chi arriva
da lui. Quasi come, uno come me che ha vissuto in jeans e la cravatta, nei
lunghissimi 63 anni di vita, l’ha messa si e no 20 ore, si sentisse a proprio
agio tutto in ghingheri. E se nel viaggio mi stropiccio tutto? E se i capelli
non stanno a posto?
Personalmente sono per la
cremazione, però pare sia cosa costosa e laboriosa. Ricordo quando leggevo i
bilanci del mio piccolo paesino, una della spese più enormi era relativa al
cimitero. Far star bene i vivi non sarebbe eticamente meglio?
Vabbè, pensieri sparsi
vagando fra cappelle monumentali e leggendo lapidi di nomi che pochi ricordano,
dopo la prima generazione tutti dicono “chissà chi era questo…”
Ah, erano due le cose strambe
che ho fatto quel giorno, per la seconda spero che il mio amico Pino De Luca non
legga, non vorrei perdere la preziosa conoscenza e amicizia di un raffinato gastronomo.
Lo stesso giorno del cimitero, all’ora di pranzo, sono stato al Mc Donald.
Veramente una porcata, meglio una pizza o una puccia.
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