Una ventata di novembre brumoso, nebbioso e brinoso piemontese
nella calura africana del Salento in luglio. Pensando alla prima galaverna che
rende bianchi l’erba e i rami.
La bagna cauda, sua maestà, è la prova provata che i
piemontesi non sono poi così musoni come certa vulgata li vuole dipingere. E’
il piatto conviviale per eccellenza, mangiarla da soli è triste, induce alla
malinconia. Sarebbe come giocare da soli a burraco facendo il giro del tavolo e
giocando nel ruolo di quattro giocatori.
E la compagnia deve essere buona, anzi eccellente. Intanto
nessuno schizzinoso dovrà avvicinarsi perché l’utilizzo di aglio in quantità
provocherà, assieme al controllo della pressione e delle depressioni, anche
effetti socialmente non sempre bene accetti, in secondo luogo perché l’unica bevanda ammessa è
il vino che deve essere rosso, ottimi il Barbera, il Barbaresco, la Freisa. Anche
il Dolcetto, sia pure non amato da molti, sta benissimo. In Salento ci si può
lasciare andare con Negramaro e altri vitigni locali.
Prepararla è un rito e le ricette variano, come si conviene
per i piatti popolari, da luogo a luogo, da famiglia a famiglia. Vittorio Foa,
antico piemontese, negli ultimi anni della sua lunghissima e produttiva vita,
non si spostava da una località marina laziale che al momento mi sfugge. Un
gruppo di amici molto più giovani, quando era stagione, partivano da Torino con
il loro carico di verdure piemontesi e tutto l’occorrente per andare da lui e
farlo felice con una mangiata faraonica del magico intingolo.
Il piatto, pur se popolare, era amato anche da nobili e
proprietari terrieri, una ricetta trasversale.
I modi per prepararla.
Partiamo dalla ricetta ufficiale, quella della confraternita
della Bagna Cauda di Nizza Monferrato:
Un tegame di terracotta, 4 spicchi d’aglio tritati e immersi
nel latte per ¼ d’ora. 200/250 grammi di olio d’oliva di origine certa,
mezz’etto di burro, un etto di acciughe sotto sale ben lavate, pulite e bene in
carne.
Mettere sul fuoco il tegame con l’olio, il burro e far sciogliere
le acciughe, togliere l’aglio dal latte, aggiungerlo e far cuocere finchè aglio
e acciughe siano sciolti. Attenzione, l’olio non deve mai friggere, la cottura
dev’essere lenta e costante. Il tegame in terracotta verrà posto al centro del
tavolo ed ogni commensale intingerà le verdure cotte o crude accompagnando il
tutto con pane casereccio e vino in quantità.
Esiste poi la ricetta dei cosiddetti “integralisti” che
prescrivono una testa d’aglio a persona (12 spicchi circa). Forse un po’
eccessiva. Assoluto divieto di latte o panna perché “il latte si dà ai gatti”. La
norma prevede invece una media di 3 spicchi pro capite. Ribadisco che dall’aglio
non si può prescindere, sarebbe come fare la pasta con le cozze senza cozze.
Sugli ingredienti:
Le acciughe erano utilizzatissime in Piemonte, trasportate
dagli acciugai che spesso contrabbandavano il sale passando per le “vie del
sale”. Preferibili allo scopo sono quelle di Spagna, rosse, stagionate un anno
almeno sotto sale, rigorosamente pulite, lavate prima con acqua, poi con ottimo
vino rosso prima di essere messe nell’olio.
L’olio d’oliva: un tempo il Monferrato era produttore, oltre
che di vino, anche di olive, altrimenti non si spiegherebbero i paesi dal nome
: San Marzano Oliveto (At), Olivola (Al) ecc. Quando la coltura sparì si fecero
tentativi d sostituirlo con l’olio di noci, decisamente più deperibile. Molte
ricette vorrebbero una piccola aggiunta di tale olio, difficoltoso da trovare.
Aglio: originario dal Kazakistan e paesi limitrofi, si
diffuse rapidamente nel mondo. C’è chi ne parla come di un coadiuvante nelle
disfunzioni sessuali maschili. Tale supposizione pare senza fondamento. Delle
400 specie quello più adatto per il nostro piatto sarebbe quello di Vessalico
(paese vicino ad Albenga), oppure il siciliano di Nubia. I meno integralisti
utilizzano quasi sempre quello che trovano in commercio al momento. Suggerisco
di evitare il cinese che incombe. Troppo debole.
Il cardo: Il mese delle brine e delle nebbie, quando si
raccoglie deve essere (tradizione impone) quello gobbo di Nizza Monferrato, i
luoghi di Cesare Pavese. Meglio, molto meglio se raccolto dopo che ha preso in
campo la prima gelata perché è più tenero e morbido. Si piantano in maggio, a
fine estate vengono legati con rametti di salice e in settembre vengono
ripiegati ed interrati perché diventino bianchi perdendo la clorofilla. Si
utilizza staccandone le foglie e tagliandole a pezzi mettendole, dopo lavate,
in acqua acidulata con limone perché non anneriscano. Ovviamente si utilizza
anche il cuore che è tenero.
Peperoni: Cotti. Per fare presto, si passano sulla fiamma
fino a poter eliminarne la pellicina, si servono così, tagliati a fette da
intingere. Tradizione richiederebbe quelli cotti sotto raspa d’uva, ma la
preparazione è laboriosa e richiede raspi d’uva appena pigiati ed una salamoia.
Ottimi alla bisogna anche quelli crudi, preferibili i gialli carnosi.
Assolutamente immancabile il tapinanbur, tubero coltivato,
ma molto spesso spontaneo in terra piemontese. Si elimina la buccia, i piccoli
bitorzoli e i nodi, si tagliano a pezzi e si servono crudi dopo averli immersi
in acqua fredda (non serve il limone).
Il cavolfiore: i cui fiori teneri possono essere crudi,
lavati e immersi acqua fredda, oppure cotti alla maniera solita.
Le cipolle al forno: metterle in forno a 180 gradi, lasciate
raffreddare, togliete la pellicina e tagliatele e pezzi. I cipollotti crudi
vanno benissimo.
Il sedano privato dei filamenti si serve a crudo.
La patata a pasta gialla lessata e servita con tutta la
buccia, sarà compito del commensale sbucciarle.
Il finocchio a crudo tagliato a tocchi e messo in acqua
acidulata.
Tutte le verdure a crudo che si trovano vanno benissimo.
Una curiosità, provatela con la mela. Si acquistino renette
o mele ruggine (ahimè difficoltose da trovare) o le mele Carla, si lavino con
cura e si mettano in tavola come sono, sarà compito del commensale sbucciarle
al momento per evitare brutti annerimenti e ossidazioni.
Il tegame in terracotta viene posto al centro della tavola e
ogni commensale intinge la sua verdura aiutandosi, per non sgocciolare, con
fette di pane casereccio. I più raffinati potranno servirla in fornelletti
individuali.
La ricetta soft di Gualtiero Marchesi
Ingredienti per 4 persone: 130 g. di filetti di acciuga
sott’olio, un decilitro di latte, 3 spicchi d’aglio, 3 decilitri di olio
d’oliva, un cucchiaio di olio di noci.
Mettere a bagno l’aglio per due ore circa nel latte,
scolarlo e schiacciarlo bene nel mortaio. In un recipiente di terracotta
stemperare nell’olio l’acciuga e l’aglio schiacciati, lascia dolo sobbollire
sempre mescolando per circa 10 minuti. Servire in tavola sugli appositi
fornelletti con le verdure.
E’ buona norma, in caso di fornelletti singoli tipo bourguignon, quando la bagna cauda
sta finendo, per aiutare la digestione, prendere un uovo intero, romperlo nella
bagna cauda residua e farlo strapazzato
da consumare caldissimo.
Oppure utilizzarla per condire ottima pasta, comunque si
decida nulla deve assolutamente andare sprecato.
Bagnam
caudam nos caudamus
Bagna cauda
nos amamus
Bagnam cauda
non cantamus
Bagna cauda
nos voramus
Pedemontis
rex est cardus
Pedemontis rosa est aglius
Pedemontis deus est vinum
Pedemontis vita est bagna
Bagna cauda
te adoramus
Bagna cauda
te basiamus
Bagna cauda te exaltamus
Bagna cauda te inscenamus
Inter flores autunales
Deliciarum flos est cardus
Inter fructus monferrales
Cardu fructus principalis…
Filastrocca
allegra, goliarda, conviviale, nel magnificare il piatto principe della regione,
ma in latino maccheronico…” (Da: Il
Salto dell’acciuga di Nico Orengo – Einaudi)
E ancora,
sempre dallo stesso libro, il canto propiziatorio alla bagna cauda:
Che goduria
Che fortuna
Costa seira
ch’as trovoma questa
sera ci troviamo
Venna fè na
gran baldoria bisogna
fare gran baldoria
Venta fè na
sarabanda bisogna
far casino
Ventarà cò
ampestè l’aria
bisognerà anche appestare l’aria
Bagna cauda
nos laudamus
Bagna cauda
non laudamus
L’olio
d’oliva: per amalgamare
Per ammorbidire
Per riconciliare
Le
anciove: che rubano il sale al mare
(acciughe) Che raspano la gola
E son pesci di montagna
L’aglio Che fa bene alla pressione
Alla circolazione
E tiene il diavolo alla
larga
Costa l’è na
bagna cauda questa
è la bagna cauda
Nostra
sancta medicina nostra santa medicina
campè giò la
bagna cauda butta
giù la bagna cauda
Con sciroppo
barbaresco con
sciroppo Bararesco
Sempre in
compagnia
Per portare
nuovi adepti
Anche i
peggio schizzinosi
Che “domani
io lavoro”
Che non
fanno mai un coro
Vivono senza
colori
Sulla tavola
imbandita
Gran foresta
di bottiglie
Dalla Freisa
alla Barbera
Dal Nebbiolo
al Grignolino
Riempi un
piatto a montagnola
E preparati
al divoro di:
peperoni
sotto raspa
cardo gobbo
che è più dolce
barbabietole
e patate
di cipolle
cotte al forno
verza crespa
che raccoglie
grandi
quantità di bagna
poi
finocchio e sciolotin
sedano e
tapinabò
Costa l’è na
bagna cauda questa
è la bagna cauda
Nostra
sancta medicina
nostra santa medicina
Campè giù la
bagna cauda butta
giù la bagna cauda
Con sciroppo
barbaresco con
sciroppo Barbaresco
Conseguenze:
trippe
sfatte e occhi sversi stomaco sfatto ed occhi
riversi
scongiuriamo
il cimitero
scongiuriamo il cimitero
omo aisè le
coppe al cielo
abbiamo alzato le coppe al cielo
fomne auta
la bandiera facciamo alta la bandiera
desmentiand
l’inibision
scordiamo le inibizioni
aria de zora
aria di sopra
aria dal cul
aria dal culo
Tutte le notizie sono tratte dal libro di un amico ed
importantissimo ricercatore di ricette della cucina alessandrina, presidente
onorario di slow food Alessandria, Luigino Bruni. “La bagna cauda – L’origine,
la storia, ricette famose di ieri e di oggi” Edizioni dell’Orso – Alessandria.
Pagg. 190 - € 16,00
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