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domenica 21 luglio 2013

Silvia e Barbara, due fotografe al Fondo Verri

Loro sono Silvia Dongiovanni di Salve e Barbara Nassisi di Galatina. Il luogo è il Fondo Verri con le sue pareti nere. La mostra delle due giovani fotografe salentine è un insieme di emozioni. Fotografie come specchi dell’anima, per riflettere. Le donne della Dongiovanni sono: sole, allo specchio, si sdoppiano e tornano a fondersi in una sola, sono quelle che sfilano in passerella mostrando un abito che le copre completamente, volto compreso, un’icona che vuole concellarne le sembianze, annullarla quasi a farne attacapanni, importante è la merce esposta, quello che ci sta sotto, emozioni, sensazioni, rapporti, sentimenti, nulla esiste, il corpo non esiste. Sono donne “senza uscita” come dice il titolo di un’altra opera. C’è inquietudine in quelle opere, urla, echeggia la cronaca di ogni giorno con quel terrificante neologismo che dice di femminicidio, ed esiste una solitudine dell’essere umano che forse si può intrevvedere anche come neutro, si respira Pathos, volti, sguardi e corpi che obbligano a mettersi in discussione.
Diverse le opere della Nassisi, la donna “self made woman” è riflessa in un oblò forse di lavatrice, diffusi nelle opere sono gli orologi  che scandiscono i tempi, a volte sembrano solo fermi quasi a bloccare gli eventi, come quella sveglia fra vetri infranti dal titolo emblematico “ho in mente da tanto tempo di dire come bruciano le cose”, bruciano… si infrangono… scomposte… o come il “movimento” rappresentato da una giostrina ferma, un movimento immobile, un ossimoro della vita di ogni giorno. Fermi immagine, appunto. Così è la fotografia, coglie il momento, quel momento e non un altro, quel sorriso e non un altro.  “L’avvenire è tormento, il passato trattiene, il presente sfugge”. Il tempo che è comunque inquietudine di vita, di gesti, di azioni, solo il presente sembra essere calmo, però sfugge fa le dita come sabbia, scivola via nel divenire ed è già passato, l’attimo è già vissuto e se ne cerca un altro.  La strada che, alla fine, non è che un “disco di inchiostro e cera”. Come il clown ripreso di spalle mentre prepara gli attrezzi per il prossimo spettacolo di strada. Un pagliaccio di cui immagini il volto, il lavoro, i gesti. Preso dalla quotidianità del mettere a punto strumenti di lavoro. Una mostra che, alla fine, lascia aperta la strada delle emozioni e, come l’arte può e dovrebbe, invita a ri/pensarti.


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