Loro sono Silvia Dongiovanni di Salve e Barbara Nassisi di
Galatina. Il luogo è il Fondo Verri con le sue pareti nere. La mostra delle due
giovani fotografe salentine è un insieme di emozioni. Fotografie come specchi
dell’anima, per riflettere. Le donne della Dongiovanni sono: sole, allo
specchio, si sdoppiano e tornano a fondersi in una sola, sono quelle che sfilano
in passerella mostrando un abito che le copre completamente, volto compreso,
un’icona che vuole concellarne le sembianze, annullarla quasi a farne
attacapanni, importante è la merce esposta, quello che ci sta sotto, emozioni, sensazioni,
rapporti, sentimenti, nulla esiste, il corpo non esiste. Sono donne “senza
uscita” come dice il titolo di un’altra opera. C’è inquietudine in quelle
opere, urla, echeggia la cronaca di ogni giorno con quel terrificante
neologismo che dice di femminicidio, ed esiste una solitudine dell’essere umano
che forse si può intrevvedere anche come neutro, si respira Pathos, volti,
sguardi e corpi che obbligano a mettersi in discussione.
Diverse le opere della Nassisi, la donna “self made woman” è
riflessa in un oblò forse di lavatrice, diffusi nelle opere sono gli orologi che scandiscono i tempi, a volte sembrano
solo fermi quasi a bloccare gli eventi, come quella sveglia fra vetri infranti
dal titolo emblematico “ho in mente da tanto tempo di dire come bruciano le
cose”, bruciano… si infrangono… scomposte… o come il “movimento” rappresentato
da una giostrina ferma, un movimento immobile, un ossimoro della vita di ogni
giorno. Fermi immagine, appunto. Così è la fotografia, coglie il momento, quel
momento e non un altro, quel sorriso e non un altro. “L’avvenire è tormento, il passato trattiene,
il presente sfugge”. Il tempo che è comunque inquietudine di vita, di gesti, di
azioni, solo il presente sembra essere calmo, però sfugge fa le dita come
sabbia, scivola via nel divenire ed è già passato, l’attimo è già vissuto e se
ne cerca un altro. La strada che, alla
fine, non è che un “disco di inchiostro e cera”. Come il clown ripreso di
spalle mentre prepara gli attrezzi per il prossimo spettacolo di strada. Un
pagliaccio di cui immagini il volto, il lavoro, i gesti. Preso dalla
quotidianità del mettere a punto strumenti di lavoro. Una mostra che, alla
fine, lascia aperta la strada delle emozioni e, come l’arte può e dovrebbe,
invita a ri/pensarti.
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