Noto per la sua precocità nella professione giornalistica, ha lavorato per i
quotidiani Paese Sera, La Repubblica e Lotta continua.
Si è occupato di cronaca e del mondo dei movimenti politici giovanili degli anni settanta e, in particolare, del movimento del '77. Famoso è stato il suo impegno nel
documentare l'avvento dell'eroina della fine degli anni '70 in Italia,
tracciando un profilo sociale dei consumatori e occupandosi di indagare sul
sistema dello spaccio di droga.
Carlo Rivolta fu egli stesso vittima della tossicodipendenza da eroina: morì all'età di 32 anni, dopo cinque giorni
di coma,
in seguito a una caduta dal primo piano di un palazzo in via Prestinari,
occorsagli durante una crisi d'astinenza.
Così su wikipedia si parla di Carlo Rivolta.
“Che stronzo sei stato, avevi la poesia nel cuore, avevi
l’ironia nello sguardo ed eri bravo, proprio bravo” pensavo mentre la bara di
Antonio veniva portata a spalle verso il cimitero. Qualcuno distribuiva fiori,
uno a testa, qualcuno taceva, qualcuno piangeva piano. Non avevamo tempo né
voglia neppure di speranza, avevamo perso una guerra ed eravamo risucchiati dal
quotidiano mentre attorno a noi una nuova economia faceva quattrini, era quella
dei centri di disintossicazione, dei medici che sanno, dei guru che truffano
vendendo aria fritta e speranze. Era quella degli scippi e delle autoradio rubate.
Qualcuno, troppi, finirono in galera a soffrire le loro crisi di astinenza. Ci
fu un lungo periodo in cui terminammo di pontificare per guardarci attorno e
vedere impotenti e senza più un obbiettivo da raggiungere l’ecatombe attorno a
noi. Perché quel lungo interminabile ’68 stava finendo nel modo peggiore,
perché sapevamo che dietro ogni grammo di hascish, di eroina, ci stavano le
mafie. Facevamo finta di nulla, qualcuno denunciava, piano però, per non fare
rumore, avevamo il nostro daffare a tentare di aiutare amici che si stavano
lanciando come Antonio sotto un treno che passava da lì.
“Quelli del ‘77” erano più giovani, più ribelli, più
tranchant nei giudizi. Attorno, nelle città grandi, non certo nella provincia
della bassa piemontese dove vivevo, giravano armi come sigarette di
contrabbando, come eroina, tutto sembrava lecito. Non ci importava nulla delle
mafie. Quando compravamo un pacchetto pensavamo al sottoproletario che li
vendeva sul suo banchetto per sopravvivere piuttosto che al giro di affari che
ci stava dietro. Così ci creavamo un alibi di politicamente corretto, e poi
eravamo nemici delle forze dell’ordine, chi era contro di loro era dalla nostra
parte. La mancanza dei toni del grigio era incredibile. D’altra parte
arrivavamo da momenti in cui “dobbiamofarelarivoluzioneproletaria”. Carlo
Rivolta era tutto questo, iniziò a fare il cronista per Paese Sera. Poi
Scalfari, il guru, lo volle nella neonata Repubblica a raccontare di terrorismo
e di eroina. Carlo sapeva come la sinistra estrema si muoveva, e capiva, prima
di molti altri cronisti che aspettano il comunicato stampa in redazione, come
le droghe stessero invadendo il mercato e massacrando intelligenze, sapeva e
denunciava nei suoi articoli. Mantenendo sempre il livello della sua visione
democratica molto alto. Fu per un numero direttore responsabile di
“Internazionale”, la rivista sulla quale scrivevano quelli dell’autonomia finiti
in galera perché accusati, da strambi teoremi poi caduti, di essere la testa
pensante delle Brigate Rosse. Lo fece perché la libertà di informazione è sacra:
“non concordo con quanto dici ma darei la vita perché tu possa continuare a
dirlo”. E Carlo aveva un lavoro sicuro e
garantito a Repubblica, era stimato, ma non gli bastava, osò passare a scrivere
sulle colonne di un giornale ormai agonizzante, anzi, un morto che camminava,
si chiamava Lotta Continua ed era diretto da Enrico Deaglio. Scrisse anche dei
suoi viaggi negli USA che amava, e ancora di eroina e di terrorismo. Moro era
morto, Repubblica era per il partito della fermezza, lui fu dalla parte della
trattativa per salvarlo. Poi le BR fecero fuori Guido Rossa, un sindacalista di
Genova e un ragazzo che aveva la sola colpa di essere il fratello di Patrizio
Peci, il pentito delle BR che fece arrestare un sacco di persone. Esecuzioni in
perfetto stile mafioso, i “compagni che sbagliano” divennero criminali che
ammazzano operai. Carlo ne scrisse. Però
qualcosa si era insinuato nella sua vita. Quando? Perché? Non è detto. Però sappiamo che succedeva così,
all’improvviso incontravi un amico, un compagno, e ti accorgevi della sua
magrezza, degli occhi liquidi. E sapevi che ti avrebbe chiesto diecimila lire
“per pagare l’affitto”. Ma sapevi che l’affitto non c’entrava un cazzo, se
avevi le diecimila le davi, senza chiedere altro. Poi magari ti trovavi con un
fiore in mano ad accompagnarlo e a dire “che stronzo sei stato…” e,
maledizione, quasi sempre erano quelli più bravi, che sapevano suonare o
scrivere poesie o dipingere, che invidiavi perché tu non sapevi fare nulla di
tutto ciò. Sensibilità elevate, alte. Forse troppo.
La storia di Carlo la trovate in libreria: “L’aspra
stagione” di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale – Ed. Einaudi – Stile libero
extra - €18,00
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