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sabato 31 gennaio 2015

Mafie al nord

La presenza della mafia nel Nord Italia deve «essere ormai letta in termini non già di mera infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione». Ad affermarlo il presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una lunga riflessione sulla ‘ndrangheta in Lombardia, facendo riferimento soprattutto al processo «Infinito», concluso in Cassazione «con centinaia di condanne a secoli di carcere». Il presidente Canzio ha poi continuato «certo che presenza e attenzione sarà riservata all’azione di prevenzione e repressione di ogni forma di violenza di natura eversiva o terroristica o di matrice fondamentalista che intenda profittare della portata internazionale» dell’Expo 2015 a Milano. Così su corsera del 25 gennaio 2015.

Che si tratti ormai di mafia conclamata e saldamente inseditata a nord non è cosa nuova, il problema sono i meccanismi che si innescano, terrificanti e assolutamente identici a quelli imputati da sempre al sud. “Nessuno denuncia” “c’è omertà” “la società civile non sa rispondere”. Assunti usuali, più la ragnatela è fitta più la società civile si sente avvolta e sconvolta. E i meccanismi sono avvolgenti, l’economia della crisi accentua i problemi, le banche non concedono prestiti, le piccole partite IVA sono strozzate da debiti, e così via,  Il risultato finale è che la pressione aumenta a dismisura, chi vuole pagare  tutte le tasse soccombe e che si crea,a seconda delle volte, una guerra fra poveri (il reddito fisso che guarda male il venditore ambulante) o una sommessa solidarietà “senza ricevuta risparmi l’IVA”, in tempi come questi in cui puoi risparmiare il 20% non è male farlo. Nel frattempo il governo depenalizza i grandi evasori e passa sottobanco reglain ianche a Silvio il breve. Qui si infiltrano le mafie, prestando quattrini (proprio come nel vituperato sud, cari leghisti) e legando i debitori al carro dell’usura. Il passaggio successivo, giusto per darne notizia, sarà una mafia “umanizzata”, il padrino del paese o del quartiere raggiunto dalla richiesta di una famiglia in difficoltà che concede piccoli prestiti a fondo perduto. Ci rimetterà magari 1000 euro ma ricaverà un corrispettivo immenso di gratitudine e, per conseguenza, di solidarietà. E in tempi di disoccupazione trovare un lavoro, anche in nero, non è poi male. E se lo Stato confisca i beni, il commissario, come succede spesso, si troverà a dover chiudere l’attività produttiva perché i guadagni si reggevano solo sull’evasione contributiva e fiscale. Il padrino dà lavoro, lo Stato lo toglie? E se lo Stato ridiventasse etico e concedesse sanatorie ai commissari di questi beni? Se estendesse la cassa integrazione e contratti particolari a quei lavoratori? Macchè, la miopia dilaga.  Ma la mafia è invisibile? LA proliferazione di locali per il gioco d’azzardo, dei compro oro, di auto in fiamme, sono segnali inquietanti, colpiscono dal basso, poi si approprieranno di aziende e il gioc osarà fatto. 
Ora che dire dell’omertà della paura, del terrore, del “non ho visto nulla” milanese? E’ cronaca, ne hanno parlato, ne cito due su mille piccoli episodi, ne parlarono corsera del 4 settembre 2014 e il fatto del 22 aprile 2013.

Nessuno ha sentito né visto, nessuno conosce nessun altro. Questo è terrore, è sfiducia nelle forze dell’ordine. Questa è quella cosa che per il sud si chiama omertà e sono i meccanismi che agevolano solo ed esclusivamente le mafie, gli spacciatori. Duro il lavoro ch edebbono fare le scuole di ogni ordine e grado, dall’informazione e dalla formazione alla legalità inizia un cammino virtuoso. Non è un caso che un’organizzazione come Libera Contro le Mafie lavori sulla formazione e sulla scuola. E benesarebbe se i giornali e i siti sensibili facessero informazione puntuale sugl iepisodi dubbi, che fanno pensare. Certo, parlare ei massim isistemi e dell’elezione al Quirinale è intrigante e tutti hanno la linea, parlare dell’auto che brucia può parere banale. Così non è, tacere è solo un modo per lasciare soli i taglieggiati e spazzare pa polver e sotto il tappetino dei massimi sistemi.  
L’operazione “Aemilia” in questi giorni ha dimostrato plasticamente come le mafie siano radicate a nord (o l’Emilia è considerata da Salvini quasi sud?), intrecci fra politica, economia, imprenditoria hanno portato a 117 misure cautelari, la maggior parte a Reggio Emilia e provincia, ma l’indagine continua.   I capi di imputazione sono moltissimi, tra i quali estorsione, usura, impiego di denaro proveniente da delitto. Fra i nomi presenti nell’inchiesta ci sono anche quelli del consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, di Forza Italia, e dell’ex assessore del Comune di Parma, Giovanni Paolo Bernini. In questo quadro è bene rileggere il
 Primo rapporto trimestrale sulle aree settentrionali sul fenomeno mafioso , ricerca curata dall’Università di Milano con l’osservatorio sulla criminalità organizzata.
Il documento analizza i dati e i numeri delle mafie nel nord Italia, (Lombardia, Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Emilia Romagna, Triveneto, Veneto) con dati, tabelle e analisi.
 In particolare si fa notare il ruolo dei piccoli comuni, prescelti dai mafiosi per insediarsi: “…A tal fine il rapporto si sviluppa a partire dalla proposizione di una tesi di fondo che ne costituisce il maggiore riferimento teorico, ossia il ruolo decisivo giocato dai piccoli comuni nell’evoluzione della vicenda mafiosa al nord. Espone in apertura le principali mappe generali della presenza mafiosa per consentire da subito una lettura sintetica dei punti di arrivo del lavoro. Quindi si snoda nell’analisi delle singole regioni seguendo un ordine decrescente dell’indice di presenza mafiosa, così come definito dal gruppo di ricerca: Lombardia, Piemonte- Val d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna e Triveneto. Ogni regione viene trattata tenendo conto sia dei dati demografici sia dei dati giudiziari, con attenzione a tutti i fatti che possano concorrere significativamente a comporre il panorama della presenza mafiosa. Dopo una descrizione e valutazione di insieme, ogni regione viene poi scomposta per provincie, per spingere l’analisi il più in profondità possibile…”
Quindi si parla dei beni consfiscati dicendo “…la loro numerosità, pur riflettendo senz’altro, in linea di massima, la densità della presenza mafiosa, riflette anche il grado di efficienza degli apparati investigativi e repressivi. Un basso numero di beni confiscati può cioè esprimere, anziché una modesta presenza di organizzazioni mafiose, una carenza di iniziative di contrasto (come, ad esempio, è a lungo accaduto, e significativamente, nella provincia di Imperia). Infine, non tutti i beni confiscati hanno la stessa importanza e dimensione e non tutti sono appartenuti necessariamente a organizzazioni di stampo mafioso, venendo talora deliberato il provvedimento di confisca anche nei confronti di gruppi di “semplici” narcotrafficanti…”



Si sottolinea come la difficoltà di avere dati ufficiali, ordinati e accessibili
“… non i cosiddetti dati “sensibili” o comunque sotto copertura, ma quei dati essenziali
Che dovrebbero comporre – come in ogni altro campo della ricerca – statistiche ufficiali a disposizione dell’opinione pubblica- …”


 Mappa degli indici di presenza mafiosa.



Quindi si passa all’analisi per regioni e relative province.
Per quanto riguarda il Piemonte i dati sembrano quasi “tranquilli”, in realtà la situazione è importante.

La regione del Piemonte è stata storicamente caratterizzata da forti infiltrazioni da parte della criminalità organizzata sia di origine siciliana sia calabrese. Si ricordi che importanti esponenti di Cosa nostra e di ‘ndrangheta sono stati mandati al confino proprio in Piemonte in comuni come Bardonecchia, Venaria Reale o Cuorgnè luoghi, questi, che sono rimasti per diverso tempo sotto l’influenza delle organizzazioni criminali. Anche l’omicidio del procuratore della Repubblica di

Torino Bruno Caccia, avvenuto nel 1983, è indicativo circa la natura per nulla recente della presenza mafiosa sul territorio. E rappresenta a tutt’oggi un caso paradigmatico di “omicidio eccellente” compiuto in contesto non tradizionale.

Altrettanto degni di nota sono i diversi sequestri di persona della prima metà degli anni ’70 e ’80 riconducibili a gruppi organizzati di stampo mafioso, ovvero le cosiddette guerre di mafia avvenute in un secondo momento principalmente a Torino e in alcuni comuni della sua cintura. A tal proposito va ricordato che in

Piemonte alla fine degli anni ’80 ‘ndrangheta e Cosa nostra avevano stretto accordi di collaborazione allo scopo di commettere azioni violente. Lo stesso processo Cartagine di quegli anni dimostrò la vicinanza dei Belfiore (Domenico Belfiore venne condannato proprio per l’omicidio Caccia) alle famiglie calabresi dei Molè-Piromalli, dei Mazzaferro, dei Romola e Commisso, tutti nomi che si sarebbero ripresentati nel torinese in epoca più recente.

Questi episodi, seppur lontani nel tempo, sono determinanti per chi voglia analizzare il grado di diffusione del fenomeno mafioso nella cosiddetta “area non tradizionale” del Piemonte. Di fatto, anche al di là del confino, questa regione - come la Lombardia - ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L’espansione urbanistica degli anni ’60, compresa quella delle zone turistiche montane, ha probabilmente contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. Si pensi ad esempio alla Val di Susa o ancora una volta alla località turistica di Bardonecchia e al ruolo di spicco che vi hanno giocato alcuni soggetti mandati al confino, a partire dal settore delle costruzioni.

A oggi si può sostenere che il Piemonte sia una tra le regioni del Nord Italia più penetrate, benché in forme e a livelli assai diseguali, dal fenomeno mafioso. Vi si assiste a una netta prevalenza di ‘ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata in particolar modo dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato disvelato un radicamento molto forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, ma anche nel basso Piemonte. Il che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre “i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza”. E’ stato però anche disvelato il progressivo inserimento della criminalità organizzata calabrese sia nel tessuto economico sia nell’area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. E’ anzi possibile ipotizzare che proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali abbia favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell’edilizia e dei lavori pubblici.

Si osservi come le diverse operazioni svolte nella regione abbiano messo in luce la presenza di presidi stabili di ‘ndrangheta sul territorio, con una preferenza

(nuovamente da notare) per i comuni di piccole dimensioni dell’area torinese.

Nel 2012 l’inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l’esistenza di 9 locali nell’ area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta da

Polsi, chiamata “Bastarda”, con influenze a Salassa e comuni limitrofi (sempre nella provincia di Torino). Si suppone poi l’esistenza in Piemonte del “Crimine”, apparato della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione della violenza sul territorio, mentre manca la “Camera di Controllo” (apparato di coordinamento dell’organizzazione criminale presente al nord in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della ‘ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte.

Un altro presidio stabile è emerso nella provincia a seguito della recente indagine Esilio conclusasi nel 2013 e coordinata dal nucleo investigativo di Torino. È stata così individuata a Giaveno (TO) una struttura atipica gestita da soggetti siciliani, ma legata alla ‘ndrangheta.

Per quanto concerne il basso Piemonte, si è invece scoperta una locale a Bosco

Marengo, nei pressi di Novi Ligure, mentre si suppone l’esistenza di una locale ad Asti e di un’altra a Fossano (CN). L’indagine Colpo di Coda del 2012, invece, ha individuato nel vercellese la locale di Livorno-Ferraris, strettamente collegata a quella di Chivasso, mentre con l’operazione Infinito nel 2010 è stata messa in luce la locale di Novara.
Dai dati raccolti è possibile affermare come in Piemonte non sia riscontrabile una presenza significativa riconducibile alla camorra. Si noti, però, che nel 2012 a Fara Novarese è stato predisposto il sequestro di un bar appartenente presumibilmente a un soggetto legato al clan camorristico Belforte, mentre risale al 2013 il sequestro di un bar a Torino riconducibile a un clan campano.

Un indicatore altrettanto rilevante relativo al grado di infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose nella regione è l’altissima presenza di beni confiscati, concentrati ancora una volta nell’area del torinese [la regione è per numero di beni confiscati la seconda del nord dopo la Lombardia].



La provincia di Alessandria


In provincia di Alessandria si registra una significativa presenza di ‘ndrangheta che accomuna tendenzialmente l’intera area del basso Piemonte. Recenti risultanze investigative evidenziano un processo di insediamento strutturale della criminalità calabrese e la sua capacità di infiltrarsi nel mondo politico locale.

In particolare nella provincia si rilevano:

·       La presenza di 5 beni confiscati (un numero complessivamente esiguo) in tre località alessandrine, tra cui Bosco Marengo, comune di residenza del boss Bruno Francesco Pronestì, al centro dell’inchiesta che nel 2011 ha coinvolto la ‘ndrangheta nel basso Piemonte. I dati sono riassunti nella seguente tabella:



·         Lo svolgimento di una importante inchiesta risalente al 2011 –Albachiara, appunto- che ha individuato i principali esponenti della ‘ndrangheta nel basso Piemonte, e che è culminata nel 2013 con una condanna per 416 bis nei confronti dei 19 soggetti inquisiti, capovolgendo la sentenza di primo grado in cui tutti gli imputati erano stati assolti;

·         La presenza di una locale di ‘ndrangheta con base nei dintorni di Novi Ligure, precisamente nel piccolo comune di Bosco Marengo, località di residenza, come si è detto, del capo-bastone Bruno Francesco Pronestì.





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