La presenza della mafia nel Nord Italia deve «essere
ormai letta in termini non già di mera infiltrazione, quanto piuttosto di
interazione-occupazione». Ad affermarlo il presidente della Corte d’appello di
Milano, Giovanni Canzio, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno
giudiziario. Una lunga riflessione sulla ‘ndrangheta in Lombardia, facendo
riferimento soprattutto al processo «Infinito», concluso in Cassazione «con
centinaia di condanne a secoli di carcere». Il presidente Canzio ha poi continuato
«certo che presenza e attenzione sarà riservata all’azione di prevenzione e
repressione di ogni forma di violenza di natura eversiva o terroristica o di
matrice fondamentalista che intenda profittare della portata internazionale»
dell’Expo 2015 a Milano. Così su corsera del
25 gennaio 2015.
Che si tratti ormai di mafia
conclamata e saldamente inseditata a nord non è cosa nuova, il problema sono i
meccanismi che si innescano, terrificanti e assolutamente identici a quelli
imputati da sempre al sud. “Nessuno denuncia” “c’è omertà” “la società civile
non sa rispondere”. Assunti usuali, più la ragnatela è fitta più la società
civile si sente avvolta e sconvolta. E i meccanismi sono avvolgenti, l’economia
della crisi accentua i problemi, le banche non concedono prestiti, le piccole
partite IVA sono strozzate da debiti, e così via, Il risultato finale è che la pressione aumenta a
dismisura, chi vuole pagare tutte le
tasse soccombe e che si crea,a seconda delle volte, una guerra fra poveri (il
reddito fisso che guarda male il venditore ambulante) o una sommessa
solidarietà “senza ricevuta risparmi l’IVA”, in tempi come questi in cui puoi
risparmiare il 20% non è male farlo. Nel frattempo il governo depenalizza i
grandi evasori e passa sottobanco reglain ianche a Silvio il breve. Qui si infiltrano
le mafie, prestando quattrini (proprio come nel vituperato sud, cari leghisti) e
legando i debitori al carro dell’usura. Il passaggio successivo, giusto per
darne notizia, sarà una mafia “umanizzata”, il padrino del paese o del
quartiere raggiunto dalla richiesta di una famiglia in difficoltà che concede
piccoli prestiti a fondo perduto. Ci rimetterà magari 1000 euro ma ricaverà un
corrispettivo immenso di gratitudine e, per conseguenza, di solidarietà. E in
tempi di disoccupazione trovare un lavoro, anche in nero, non è poi male. E se
lo Stato confisca i beni, il commissario, come succede spesso, si troverà a
dover chiudere l’attività produttiva perché i guadagni si reggevano solo
sull’evasione contributiva e fiscale. Il padrino dà lavoro, lo Stato lo toglie?
E se lo Stato ridiventasse etico e concedesse sanatorie ai commissari di questi
beni? Se estendesse la cassa integrazione e contratti particolari a quei
lavoratori? Macchè, la miopia dilaga. Ma
la mafia è invisibile? LA proliferazione di locali per il gioco d’azzardo, dei
compro oro, di auto in fiamme, sono segnali inquietanti, colpiscono dal basso,
poi si approprieranno di aziende e il gioc osarà fatto.
Ora che dire dell’omertà
della paura, del terrore, del “non ho visto nulla” milanese? E’ cronaca, ne
hanno parlato, ne cito due su mille piccoli episodi, ne parlarono corsera del 4 settembre 2014 e il fatto del 22 aprile 2013.
Nessuno ha sentito né visto,
nessuno conosce nessun altro. Questo è terrore, è sfiducia nelle forze
dell’ordine. Questa è quella cosa che per il sud si chiama omertà e sono i
meccanismi che agevolano solo ed esclusivamente le mafie, gli spacciatori. Duro
il lavoro ch edebbono fare le scuole di ogni ordine e grado, dall’informazione
e dalla formazione alla legalità inizia un cammino virtuoso. Non è un caso che
un’organizzazione come Libera Contro le Mafie lavori sulla formazione e sulla
scuola. E benesarebbe se i giornali e i siti sensibili facessero informazione
puntuale sugl iepisodi dubbi, che fanno pensare. Certo, parlare ei massim
isistemi e dell’elezione al Quirinale è intrigante e tutti hanno la linea,
parlare dell’auto che brucia può parere banale. Così non è, tacere è solo un
modo per lasciare soli i taglieggiati e spazzare pa polver e sotto il tappetino
dei massimi sistemi.
L’operazione “Aemilia” in
questi giorni ha dimostrato plasticamente come le mafie siano radicate a nord
(o l’Emilia è considerata da Salvini quasi sud?), intrecci fra politica, economia,
imprenditoria hanno portato a 117 misure cautelari, la maggior parte a Reggio
Emilia e provincia, ma l’indagine continua. I capi di imputazione sono moltissimi, tra i
quali estorsione, usura, impiego di denaro proveniente da delitto. Fra i nomi
presenti nell’inchiesta ci sono anche quelli del consigliere comunale di Reggio
Emilia Giuseppe Pagliani, di Forza Italia, e dell’ex assessore del
Comune di Parma, Giovanni Paolo Bernini. In questo quadro è bene rileggere
il
Primo
rapporto trimestrale sulle aree settentrionali sul fenomeno mafioso , ricerca curata dall’Università di Milano con l’osservatorio sulla
criminalità organizzata.
Il
documento analizza i dati e i numeri delle mafie nel nord Italia, (Lombardia,
Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Emilia Romagna, Triveneto, Veneto) con dati,
tabelle e analisi.
In particolare si fa notare il ruolo dei
piccoli comuni, prescelti dai mafiosi per insediarsi: “…A tal fine il rapporto si sviluppa a partire
dalla proposizione di una tesi di fondo che ne costituisce il maggiore
riferimento teorico, ossia il ruolo decisivo giocato dai piccoli comuni
nell’evoluzione della vicenda mafiosa al nord. Espone in apertura le principali
mappe generali della presenza mafiosa per consentire da subito una lettura
sintetica dei punti di arrivo del lavoro. Quindi si snoda nell’analisi delle
singole regioni seguendo un ordine decrescente dell’indice di presenza mafiosa,
così come definito dal gruppo di ricerca: Lombardia, Piemonte- Val d’Aosta,
Liguria, Emilia Romagna e Triveneto. Ogni regione viene trattata tenendo conto
sia dei dati demografici sia dei dati giudiziari, con attenzione a tutti i
fatti che possano concorrere significativamente a comporre il panorama della
presenza mafiosa. Dopo una descrizione e valutazione di insieme, ogni regione
viene poi scomposta per provincie, per spingere l’analisi il più in profondità
possibile…”
Quindi si parla dei beni consfiscati dicendo “…la loro numerosità, pur riflettendo senz’altro, in linea di massima,
la densità della presenza mafiosa, riflette anche il grado di efficienza degli
apparati investigativi e repressivi. Un basso numero di beni confiscati può
cioè esprimere, anziché una modesta presenza di organizzazioni mafiose, una
carenza di iniziative di contrasto (come, ad esempio, è a lungo accaduto, e
significativamente, nella provincia di Imperia). Infine, non tutti i beni
confiscati hanno la stessa importanza e dimensione e non tutti sono appartenuti
necessariamente a organizzazioni di stampo mafioso, venendo talora deliberato
il provvedimento di confisca anche nei confronti di gruppi di “semplici”
narcotrafficanti…”
Si sottolinea come la difficoltà di avere dati ufficiali, ordinati e accessibili
“…
non i cosiddetti dati “sensibili” o comunque sotto copertura, ma quei dati
essenziali
Che
dovrebbero comporre – come in ogni altro campo della ricerca – statistiche
ufficiali a disposizione dell’opinione pubblica- …”
Mappa degli indici di presenza mafiosa.
Quindi si passa all’analisi per regioni e relative province.
Per quanto riguarda il Piemonte i dati sembrano quasi
“tranquilli”, in realtà la situazione è importante.
La regione del Piemonte è stata
storicamente caratterizzata da forti infiltrazioni da parte della criminalità
organizzata sia di origine siciliana sia calabrese. Si ricordi che importanti
esponenti di Cosa nostra e di ‘ndrangheta sono stati mandati al confino proprio
in Piemonte in comuni come Bardonecchia, Venaria Reale o Cuorgnè luoghi, questi, che sono rimasti per diverso tempo sotto l’influenza delle
organizzazioni criminali. Anche l’omicidio del procuratore della Repubblica di
Torino Bruno Caccia, avvenuto
nel 1983, è indicativo circa la natura per nulla recente della presenza mafiosa
sul territorio. E rappresenta a tutt’oggi un
caso paradigmatico di “omicidio eccellente” compiuto in contesto non
tradizionale.
Altrettanto degni di nota sono
i diversi sequestri di persona della prima metà degli anni ’70 e ’80
riconducibili a gruppi organizzati di stampo mafioso, ovvero le cosiddette
guerre di mafia avvenute in un secondo momento principalmente a Torino e in alcuni
comuni della sua cintura. A tal proposito va ricordato che in
Piemonte alla fine degli anni
’80 ‘ndrangheta e Cosa nostra avevano stretto accordi di collaborazione allo
scopo di commettere azioni violente. Lo stesso processo Cartagine di quegli anni dimostrò la vicinanza dei Belfiore
(Domenico Belfiore venne
condannato proprio per l’omicidio Caccia) alle famiglie calabresi dei
Molè-Piromalli, dei Mazzaferro, dei Romola e Commisso, tutti nomi che si
sarebbero ripresentati nel torinese in epoca più recente.
Questi episodi, seppur lontani
nel tempo, sono determinanti per chi voglia analizzare il grado di diffusione
del fenomeno mafioso nella cosiddetta “area non tradizionale” del Piemonte. Di
fatto, anche al di là del confino, questa regione - come la Lombardia -
ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata.
L’espansione urbanistica degli anni ’60, compresa quella delle zone turistiche
montane, ha probabilmente contribuito allo sviluppo di un fenomeno di
colonizzazione a macchia di leopardo. Si pensi ad esempio alla Val di Susa o
ancora una volta alla località turistica di Bardonecchia e al ruolo di spicco
che vi hanno giocato alcuni soggetti mandati al confino, a partire dal settore
delle costruzioni.
A oggi si può sostenere che il
Piemonte sia una tra le regioni del Nord Italia più penetrate, benché in forme
e a livelli assai diseguali, dal fenomeno mafioso. Vi si assiste a una netta
prevalenza di ‘ndrangheta
rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata in particolar
modo dalle recenti operazioni Minotauro
e Albachiara. Grazie a
esse è stato disvelato un radicamento molto forte e strutturato soprattutto
nella città di Torino e nella sua provincia, ma anche nel basso Piemonte. Il
che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la
criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale
mentre “i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di
suddivisione delle zone e dei settori di influenza”.
E’ stato però anche disvelato il progressivo inserimento della criminalità
organizzata calabrese sia nel tessuto economico sia nell’area di azione della
politica e delle pubbliche amministrazioni. E’ anzi possibile ipotizzare che
proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali abbia favorito la
crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell’edilizia e dei
lavori pubblici.
Si osservi come le diverse
operazioni svolte nella regione abbiano messo in luce la presenza di presidi
stabili di ‘ndrangheta sul territorio, con una preferenza
(nuovamente da notare) per i comuni di piccole dimensioni dell’area
torinese.
Nel 2012 l’inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce
l’esistenza di 9 locali nell’ area metropolitana, ma
anche di una struttura territoriale non riconosciuta da
Polsi, chiamata “Bastarda”, con
influenze a Salassa e comuni limitrofi (sempre nella provincia di Torino).
Si suppone poi l’esistenza in Piemonte del “Crimine”,
apparato della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione
della violenza sul territorio, mentre manca la “Camera di Controllo” (apparato
di coordinamento dell’organizzazione criminale presente al nord in Lombardia e
in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della
‘ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte.
Un altro presidio stabile è
emerso nella provincia a seguito della recente indagine Esilio conclusasi nel 2013 e coordinata dal nucleo investigativo
di Torino. È stata così
individuata a Giaveno (TO) una struttura atipica
gestita da soggetti siciliani, ma legata alla ‘ndrangheta.
Per quanto concerne il basso Piemonte, si è invece scoperta una locale
a Bosco
Marengo, nei pressi di Novi
Ligure, mentre si suppone l’esistenza di una locale ad Asti e di un’altra a
Fossano (CN). L’indagine Colpo di Coda
del 2012, invece, ha individuato nel vercellese la locale di Livorno-Ferraris,
strettamente collegata a quella di Chivasso, mentre con l’operazione Infinito nel 2010 è stata messa in
luce la locale di Novara.
… Dai dati raccolti è possibile affermare come in
Piemonte non sia riscontrabile una presenza significativa riconducibile alla camorra. Si noti, però, che nel 2012
a Fara Novarese è stato predisposto il sequestro di un bar appartenente
presumibilmente a un soggetto legato al clan camorristico Belforte, mentre
risale al 2013 il sequestro di un bar a Torino riconducibile a un clan campano.
Un indicatore altrettanto
rilevante relativo al grado di infiltrazione delle organizzazioni criminali
mafiose nella regione è l’altissima presenza di beni confiscati, concentrati
ancora una volta nell’area del torinese [la regione è per numero di beni
confiscati la seconda del nord dopo la Lombardia].
La provincia di Alessandria
In
provincia di Alessandria si registra una significativa presenza di ‘ndrangheta
che accomuna tendenzialmente l’intera area del basso Piemonte. Recenti
risultanze investigative evidenziano un processo di insediamento strutturale
della criminalità calabrese e la sua capacità di infiltrarsi nel mondo politico
locale.
In particolare nella provincia si rilevano:
·
La presenza di 5 beni confiscati (un numero
complessivamente esiguo) in tre località alessandrine, tra cui Bosco Marengo,
comune di residenza del boss Bruno Francesco Pronestì, al centro dell’inchiesta
che nel 2011 ha coinvolto la ‘ndrangheta nel basso Piemonte. I dati sono
riassunti nella seguente tabella:
·
Lo svolgimento di una importante inchiesta
risalente al 2011 –Albachiara,
appunto- che ha individuato i
principali esponenti della ‘ndrangheta nel basso Piemonte, e che è culminata
nel 2013 con una condanna per 416 bis nei confronti dei 19 soggetti inquisiti,
capovolgendo la sentenza di primo grado in cui tutti gli imputati erano stati assolti;
·
La presenza di una locale di ‘ndrangheta con base
nei dintorni di Novi Ligure, precisamente nel piccolo comune di Bosco Marengo,
località di residenza, come si è detto, del capo-bastone Bruno Francesco
Pronestì.
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