La strada scorre fra
Lecce e Patù.
Là ci stanno le cento
pietre, è un monumento funerario utilizzato come mausoleo sepolcrale per
Geminario, il generale, uomo di pace, trucidato dai saraceni. Costruita con
cento blocchi di roccia presi dalla vicina Vereto, città messapica, divenne poi
chiesa. È strano, pensavo, come gli uomini di pace possano morire trucidati da
quelli di guerra. Pare una storia infinita.
La strada scorreva ma
non siamo andati a vedere le cento pietre, già la conoscevamo. In realtà non
abbiamo visto nulla quel sabato sera. Arrivati in piazza c’erano ragazzi che
giocavano, alcuni stavano seduti a raccontarsela, come succede in primavera nei
paesini, d’estate saranno di più, e ci saranno signore sedute qua e là a
raccontarsela. Illuminazione gialla, come si conviene ai centri storici.
Pavimentazione in basoli. Il silenzio è quello dei paesi tranquilli del basso
Salento, pochissime auto, voci dei ragazzi, voci di noi che parlottiamo
aspettando di finire la sigaretta prima di entrare dove dovevamo andare.
“Vieni a Patù? Cucina
piemontese” mi ha detto l’amico al telefono. Come rinunciare alla cucina
piemontese nel basso Salento?
La Rua De Li Travaj si
chiama il locale (la strada del lavoro) Immediato il pensiero corre
ad un antico detto piemontese “scapa travaj ca riv” (scappa lavoro che arrivo
io), ovviamente dedicato agli scansafatiche. Il locale è trattoria, la dicitura
è “cucina tipica salentina”. Però c’è la signora Fiorina che arriva dritta da
Alba, città del tartufo bianco fra Asti e Cuneo. Terra di Langhe e Roero, un
tempo poverissima, ne dice Nuto Revelli nel “Il mondo dei vinti” il libro che
nessun piemontese dovrebbe ignorare, soprattutto quelli che lanciano strali
contro gli immigrati. Intervistò contadini, Nuto, li fece parlare e loro
dicevano parole di emigrazione in Francia e non solo. Della povertà e dei pasti
fatti di castagne e castagne, polenta e polenta con castagne. Il mito del
tartufo sarebbe arrivato dopo. Allora c’erano le ragazze che vendevano i loro
lunghi capelli a chi li trasformava in parrucche per signore nobili, ricche,
belle.
Città di origine
preromane, divenne Alba romana, poi passò attraverso la storia, il Medio Evo,
con le sue mura fortificate dalle “cento torri”, divenne giacobina dopo la
rivoluzione francese. Poi accolse Napoleone in trionfo. Lui, anticipando altri
governi del secolo XXI°, chiese un contributo per le spese militari pari a
123.000 lire dell’epoca. Assurdo, ingiusto, esoso. Alba inviò due ambasciatori
a Parigi per trattare una cifra più equa, uno solo tornò, l’altro venne
fucilato e divenne eroe (suo malgrado). Inutile dire che dovettero pagare.
Fino ad arrivare alla
Resistenza, l’effimera Repubblica di Alba venne raccontata da Fenoglio (I 23
giorni della città di Alba), poi fu medaglia d’oro per il prezioso contributo
alla liberazione dal nazi fascismo. Altre libere Repubbliche in altre terre
echeggiano, Nardò insegna!
Oggi è famosissima per
il miglior tartufo bianco al mondo e per i vini d’eccellenza, nelle sue terre
si bevono vini DOC (Barbera, Dolcetto, Nebbiolo) e DOCG (Barbaresco e Moscato).
Tradizioni culinarie eccellenti: bagna caoda, Bolliti e bagnet, Agnolotti,
Fritto misto piemontese, Bonet, Insalata russa, Brasato e via dicendo.
Fiorina a Patù si è
portata tutto il suo patrimonio e si è lasciata contaminare da quello che ha
trovato qui. Ha cucinato per noi ottima bagna caoda, agnolotti, bolliti con
bagnetto verde, brasato (al negramaro) e bonet. Un tripudio. Tutto mangiato
sotto gli occhi attenti di Felice Cavallotti che ci guardava da una foto, e
dalle fotografie in bianco e nero appese ai muri, tempi andati di quando
c’erano tabacchine e andare da Patù a Lecce era viaggio vero, ci voleva un
sacco di tempo.
Il prezzo è stato in
linea con la quantità e qualità del cibo, tenendo conto che non è cucina
usuale.
Poi di nuovo in
strada, di nuovo verso Lecce, con profumi e sapori da ricordare. Pensando senza
troppo livore ai casi della vita, ai non salentini che contaminano Salento con
le loro conoscenze, la loro musica, le loro parole scritte, volatili, affabili,
dure come sassi, o con il loro cibo. Ed il Salento accoglie e guarda, insegna e
impara. Abbiamo cenato ed io pensavo ai casi della vita, l’amico medico in
Salento per lavoro, campano di nascita e formazione, piemontese con i tentacoli
della sua famiglia, il nonno lo era. Io piemontese, per caso in Salento. Altri
amici di Lecce Lecce (come si diceva qui per indicare i cittadini), Lecce
austera e fiera che diceva "Poppeti" indicando chi arrivava da fuori
città, dal Capo forse. E pensavo a Pavese, Fenoglio, a Davide Lajolo, scrittore
e parlamentare del PCI, che nel 1977 pubblicò lo stupendo “Vedere l’erba dalla
parte delle radici” in cui raccontava di quella notte in cui venne colto da
infarto e gli passò davanti tutta la sua vita. Sopravvisse, ne scrisse.
Tutti langaroli e
monferrini, figli di quelle terre fatte di colline dolci, sinuose, ora piene di
filari, un tempo anche di ulivi in qualche parte. Terra dalla quale si vede
l’arco alpino dove il sole tramonta. Campi e lavoro duro. Storia e storie.
Come in Salento, in
fondo. E pensavo a chi veniva fin quaggiù a comprare uva per rendere più
corposo l’ottimo vino di Langa e Monferrato, agli scambi culturali. Mani che si
stringono a distanza di mille Km, occhi che si guardano e imparano a osservare.
Profumi di mosto e di finocchio selvatico. E pensavo che è bello, in fondo,
conoscere il sapore delle cime di rapa e della bagna caoda, mischiarli nella
memoria con i ricordi. Ed è bello bere negramaro con agnolotti piemontesi che
fondono due culture. Anche alla faccia dei puristi che forse sapranno di cucina
dotta e colta, ma rischiano di scordare l’emozione del lasciarsi contaminare.
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