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lunedì 2 dicembre 2013

Salento senza futuro

Indicativo, congiuntivo, imperativo, infinito, gerundio, presente. Nel dialetto salentino manca il futuro, non esiste, si deve comporre.

Per il futuro semplice si ricorre al presente accompagnato da qualche avverbio di tempo appropriato : tra nnu picca allucisce (fra poco albeggerà).
Per il futuro anteriore si usa il passato prossimo dell’indicativo: me pigghiu a ttie dopu ci lu rre è addentatu surdatu rasu (ti sposerò dopo che il re sarà diventato soldato semplice)[1].  


Al di là della questione squisitamente etimologica e grammaticale, la mancanza del futuro potrebbe sottendere ad una mancanza di futuro? Leggendo ed ascoltando l’impressione è che nella lingua salentina ci sia una sorta di pudore, un modo di stare con i piedi ben piantati per terra nel qui ed ora. Se dico : “io farò un caffè”, è una certezza che non lascia spazio al dubbio, io lo farò costi quel che costi. Ed è, tutto sommato, un azzardo. Non tiene conto della possibilità che nel tragitto fra la poltrona dove sto seduto e la cucina possa squillare il telefono ed io debba uscire precipitosamente per qualche impegno imprevisto ed improvviso rimandando il bisogno impellente di drogarmi di caffeina, addirittura scordandomene poco dopo.
Costruendo come si fa nel dialetto salentino futuro che, proprio in quanto tale non esiste, sembra si possa lasciare un piccolo spazio all'imprevisto, all'improvviso. Al dubbio? Forse, chissà. E‘ meno perentorio, almeno, così sembra essere, perchè sappiamo che il re non potrà mai diventare soldato semplice, al massimo potrà essere decapitato o finire fuori dai palazzi del potere. Tuttavia nell’immaginario di chi ascolta si può escludere categoricamente che una rivoluzione incruenta costringa il potente di turno a ripartire da zero? Dire invece: “io non ti sposerò mai” è tranchant per chi ascolta.
Gli altri tempi invece ci sono tutti, soprattutto i passati: remoto e prossimo. Quello della storia e delle storie che stanno nelle pietre e nei monumenti, nei dolmen e nei menhir. Quando ascolto parlare dei martiri d’Otranto sembra accaduto l’altro ieri mattina, quando leggo di Maria d’Enghien mi pare di vederla camminare per le vie di Lecce. Il passato sta nella storia delle pietre che parlano e dell’arbulu te ulie (albero di olive) cantato magistralmente da Mino De Santis. Storie che si rincorrono guardando un “banalissimo” albero pieno di storia, di amori passati là sotto, di sofferenze e lavoro. Forse una delle più belle canzoni del giovane cantautore salentino.
No, il futuro non esiste, occorre costruirlo, la saggezza antica lo chiede, e lo si fa con i tempi che si toccano, si palpano voluttuosamente, si accarezzano teneramente, anche nello loro ruvidezza.
D’altra parte il salentino sa che:  Ci vae ti ggiustu passu rria a ddo’ ole (Chi procede col passo giusto arriva dove vuole)[2]
Rimane tuttavia la certezza che il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perchè il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto[3].






[1]     Antonio Garrisi - Grammatica el dialetto leccese – Congedo editore marzo 2005.(in allegato a Gazzetta del mezzogiorno)
[3] Andrea Camilleri e Tullio De Mauro – La lingua batte dove il dente duole – Editori Laterza - 2013

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