Indicativo, congiuntivo, imperativo, infinito, gerundio,
presente. Nel dialetto salentino manca il futuro, non esiste, si deve comporre.
Per il futuro semplice
si ricorre al presente accompagnato da qualche avverbio di tempo appropriato :
tra nnu picca allucisce (fra poco albeggerà).
Per il futuro
anteriore si usa il passato prossimo dell’indicativo: me pigghiu a ttie dopu ci
lu rre è addentatu surdatu rasu (ti sposerò dopo che il re sarà diventato
soldato semplice)[1].
Al di là della questione squisitamente etimologica e
grammaticale, la mancanza del futuro potrebbe sottendere ad una mancanza di
futuro? Leggendo ed ascoltando l’impressione è che nella lingua salentina ci
sia una sorta di pudore, un modo di stare con i piedi ben piantati per terra
nel qui ed ora. Se dico : “io farò un caffè”, è una certezza che non lascia
spazio al dubbio, io lo farò costi quel che costi. Ed è, tutto sommato, un
azzardo. Non tiene conto della possibilità che nel tragitto fra la poltrona
dove sto seduto e la cucina possa squillare il telefono ed io debba uscire
precipitosamente per qualche impegno imprevisto ed improvviso rimandando il
bisogno impellente di drogarmi di caffeina, addirittura scordandomene poco
dopo.
Costruendo come si fa nel dialetto salentino futuro che,
proprio in quanto tale non esiste, sembra si possa lasciare un piccolo spazio
all'imprevisto, all'improvviso. Al dubbio? Forse, chissà. E‘ meno perentorio,
almeno, così sembra essere, perchè sappiamo che il re non potrà mai diventare
soldato semplice, al massimo potrà essere decapitato o finire fuori dai palazzi
del potere. Tuttavia nell’immaginario di chi ascolta si può escludere
categoricamente che una rivoluzione incruenta costringa il potente di turno a
ripartire da zero? Dire invece: “io non ti sposerò mai” è tranchant per chi ascolta.
Gli altri tempi invece ci sono tutti, soprattutto i passati:
remoto e prossimo. Quello della storia e delle storie che stanno nelle pietre e
nei monumenti, nei dolmen e nei menhir. Quando ascolto parlare dei martiri d’Otranto
sembra accaduto l’altro ieri mattina, quando leggo di Maria d’Enghien mi pare
di vederla camminare per le vie di Lecce. Il passato sta nella storia delle
pietre che parlano e dell’arbulu te ulie (albero di olive) cantato
magistralmente da Mino De Santis. Storie che si rincorrono guardando un “banalissimo”
albero pieno di storia, di amori passati là sotto, di sofferenze e lavoro.
Forse una delle più belle canzoni del giovane cantautore salentino.
No, il futuro non esiste, occorre costruirlo, la saggezza
antica lo chiede, e lo si fa con i tempi che si toccano, si palpano
voluttuosamente, si accarezzano teneramente, anche nello loro ruvidezza.
D’altra parte il salentino sa che: Ci vae
ti ggiustu passu rria a ddo’ ole (Chi procede col passo giusto arriva dove
vuole)[2]
Rimane tuttavia la certezza che il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale,
intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa
stessa, perchè il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua
di quella stessa cosa esprime il concetto[3].
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