Le righe che seguono sono il racconto di un incontro a Otranto "Dall'isolamento alla Rinascita" nelle parole di Francesca Caminoli.
Quando, mi pare
verso novembre, Virginia Campanile, presidentessa dell’Associazione “Figli in
Paradiso-Ali tra cielo e terra”, mi chiamò per invitarmi a Otranto al XII
Convegno nazionale dei gruppi di auto-mutuo-aiuto sul lutto, che si è poi
tenuto dal 23 al 25 marzo passati, pensai immediatamente una cosa: che la vita
fa davvero dei giri misteriosi e che quei giri devono essere seguiti. Mio
figlio Guido si è suicidato il 12 settembre del 2004 a Otranto, buttandosi dai
bastioni del castello. Un anno dopo su quei bastioni ero tornata. Sul lento
viaggio da sola, in macchina, che da Lucca, dove vivo, mi aveva portata lì in
dodici giorni, avevo pubblicato un libro “Viaggio in requiem”, edito da Jaca
Book, che Virginia aveva letto. Per questo mi aveva invitata.
Ho detto sì a
Virginia, vengo. Sì per tornare a Otranto, sì perché, confesso, di questi
gruppi non sapevo niente, sì anche per conoscere Stefania Casavecchia, una
madre ciociara che mi aveva scritto dopo aver letto il mio libro. Anche suo
figlio si era suicidato. Anche Stefania aveva scritto un libro, “Il coraggio
del dolore” (Armando editore), un carteggio con lo psicologo-suicidologo
(professione che non sapevo nemmeno esistesse) Antonio Loperfido, pugliese che
lavora al dipartimento di salute mentale di Pordenone (come è lunga l’Italia). La
lettura di “Viaggio in requiem” l’aveva aiutata, mi aveva detto. Ed io ero
contenta, perché quello era uno degli scopi che speravo di poter raggiungere
con la pubblicazione: che altre madri, padri, sorelle, fratelli, amici
potessero trovare nella condivisione di una perdita così tremenda un po’ di
conforto. Con Stefania eravamo diventate amiche in facebook e ogni tanto ci scambiavamo messaggi. Sapevo
che lei sarebbe andata a Otranto. Avremmo potuto guardarci in faccia,
abbracciarci e diventare amiche più che virtuali.
Così sono
partita. Non in macchina e non in dodici giorni. Comunque adagio, in treno,
dieci ore. Di dormite e di buone letture. A Lecce ad accogliermi gli amici
Gianni e Fernanda. E subito un piatto di frittini e una parmigiana così buona e
così abbondante da non riuscire a finirla ma che mi ha aperto, anzi riaperto il
cuore verso questa terra che mi è stata matrigna e che invece sento madre.
Il giorno dopo
Otranto. Vado al moderno resort che ospita il convegno. Incontro Virginia,
indaffaratissima negli ultimi preparativi. E un giovane uomo in jeans e camicia
che scopro essere un frate, frate Angelo. Dopo la morte del fratello in un
incidente stradale e dopo essere stato cappellano all’ospedale di Galatina, dove
incontrava la morte ogni giorno, frate Angelo ha dato vita all’Associazione
Figli in Paradiso (www.figlinparadiso.it), che è presente in tutto il Salento,
ma anche in Calabria e Sicilia.
Gli ospiti sono
pochi, il convegno inizia solo il pomeriggio. Lascio Virginia e frate Angelo
alla loro organizzazione, che sarà perfetta, e vado in città, vado ai bastioni,
a parlare con Guido. Seduta sul muretto da cui ha preso il volo gli racconto un
po’ di cose. Credo che mi abbia sentito. Io non sentivo lui, poi però, mentre
stavo lì aspettando un segno, un improvviso vento mi ha scompigliato i capelli.
In quel vento ho sentito il suo abbraccio.
Giro per le
stradine delle bellissima città, ancora vuota di turisti, torno ai bastioni, a
salutare Guido. Andando via, a un angolo vedo una bella donna bionda che parla
al cellulare. Chissà perché, penso sia Stefania. Più tardi, mi dirà che era
proprio lei. Aveva notato la mia sgargiante gonna guatemalteca. Gli strani giri
della vita.
Torno alla sede
del convegno. Stefania adesso c’è, ci abbracciamo, ci riconosciamo, nel nostro
dolore e nel nostro amore per la vita.
Il convegno
inizia. C’è gente da tutta Italia, non so i numeri precisi ma sicuramente più
di duecento persone. Gruppi di auto-mutuo-aiuto che arrivano da Trento e da
Treviso, da Milano e da Parma, da Roma e da Siracusa, da tutto il Salento, ci
sono laici e cattolici, frati e psicologi, preti e medici di hospice, psicoterapeuti
e insegnanti. Ma soprattutto ci sono le persone che hanno avuto una perdita, vicine
nel dolore e nel desiderio di rinascita. Che è diverso quanto sono diverse le
persone. Ma tutte unite dall’aver trovato nei gruppi di auto-mutuo-aiuto la
forza per affrontare una perdita che sembrava insostenibile. La maggior parte
sono donne, anche se qualche uomo non manca. I più con la moglie. Soli, pochi.
Ho la conferma che davanti alle cose della vita gli uomini hanno meno
strumenti. E quindi, forse, più difficoltà.
Il sabato
pomeriggio ci sono i gruppi di lavoro. Partecipo a quello sul suicidio, condotto
da Antonio Loperfido, un uomo pacato che, con la sua sola presenza, trasmette
serenità. Ognuno racconta e già il semplice raccontare, il dare parole al
dolore, porta sollievo.
Ma voglio
concludere con una confessione. Da laica e da persona che ha compiuto un
percorso individuale per cercare di convivere con una ferita così lacerante. Ho
visto molte persone arrivare con volti devastati e ripartire con un sorriso. Ho
visto persone, la sera di venerdì, prima accennare timidamente qualche passo e
poi, spinte dalle parole di frate Angelo “i vostri figli, i vostri cari,
vogliono vedervi felici”, lanciarsi a ballare scatenate sulle note della
taranta suonata dai bravissimi Tamburellisti di Torrepaduli, ho visto
solidarietà, condivisione, riapertura nei confronti della vita. Forse, come ha
detto qualcuno al convegno, questi gruppi sono un valido sostituto di tutti
quei riti funebri che la nostra società contemporanea, che vuole quasi nascondere
il lutto e la morte, ha cancellato, rendendo più aspra e più solitaria la
strada “dall’isolamento alla rinascita”, che era poi il titolo del convegno. E
non mi sembra certo cosa da poco.
Francesca
Caminoli
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