C’era la luna sul mare di Castro. Ed era il primo giorno
d’estate. La notte scendeva lentamente, si portava appresso stupore e voglia di
lasciarsi andare. Quasi come se tutto fosse stato detto e ascoltato. Poi di nuovo i ricordi che si inseguivano.
Abbiamo mangiato acciughe e bevuto birra in riva al mare. “Li portate via o li
mangiate qui vicino al mare?” ci chiedeva la signora che stava friggendo. “Qui,
vicino al mare, è meglio”. Di fronte a quello spettacolo che le parole non
riescono a dire, che commuove per la sua prepotente imponenza e maestosa
bellezza era bello ascoltare le onde e la luna. Ma si sa, spesso si vive ieri. Oggi è talmente strano da sembrare
incomprensibile.
Tonino Bello |
“Devo andare ad Alessano domattina, mi accompagni? Poi ci
fermiamo a Castro”. Mi aveva detto l’amica con la quale stavo condividendo
birra e acciughe. Così ci sono andato, mentre lei era presa dai suoi impegni,
io sono salito sull’auto e me ne sono andato in giro. Erano le otto e trenta
circa quando entravo nel cimitero di quel paese. Non sono un frequentatore di
cimiteri. Di solito li evito,
perchè ritengo che i ricordi
siano nel cuore e nella testa. Parlo con un tramonto, con la luna magari. Non
mi riesce farlo di fronte ad una lapide con una fotografia che ha fermato un attimo,
un momento. Non necessariamente dei migliori. Magari vedo quella posa in giacca
a cravatta: “proprio lui che detestava le cravatte...”. Ma era la foto buona, quella per le grandi
occasioni. E’ come il vestito della domenica di quando
ero piccolo. Era magari bello, l’avevo scelto con cura, però non lo indossavo
che in poche occasioni. Che perdita di tempo. Forse per questo il mio
guardaroba è ridotto al minimo. Solo cose che mi piacciono. O con le quali mi
sento a mio agio. Finchè le logoro. Però
ad Alessano mi sono sentito in dovere di entrarci, nel cimitero. C’è una specie
di piccolo anfiteatro rotondo. Con gradoni dove ti puoi sedere. Al centro, in
un’aiola, rotonda anch’essa, con erba tagliata e curata, c’è la grande lapide
di Don Tonino Bello. Mi sono seduto. Non ho pregato perchè non lo so fare. Neppure
so, e non compete a me sapere, se è giusto santificare una persona. Ritengo
però sia indispensabile ricordarne la figura in ogni momento. Perchè la vera
santificazione è questa. Ricordare, sopratutto in questi tempi in cui per
troppe persone la vita è una scommessa. No, veramente non so se la
santificazione lo renderà più santo di quanto già non sia. Ero solo in quel
cimitero, a quell’ora. Unica presenza, lo zampillo dell’acqua che rendeva più
verde l’erba intorno alla lapide. Ripensavo al grembiule e alla stola uscendo. Camminavo
leggero per non disturbare. Di nuovo l’auto, sono andato fino al Ciolo. Così, per
ricordarmi la bellezza. Per farmi rapire. Così, giusto per sapere di essere
vivo. Poi, la sera, quella luna che abbiamo visto sorgere, alzarsi piano piano,
e illuminarsi sempre più mentre dall’altra parte il sole calava. Le luci là in
fondo erano l’estremo lembo d’Italia. Il giorno prima ero in piazza Sant’Oronzo
a Lecce. Mi ferma un signore, era in compagnia della moglie e del figlioletto
di pochi mesi. Mi ha chiesto dove fosse il duomo. Pantaloni corti come si
conviene ai turisti. Accento veneto. “Lei è veneto vero?” “Si sente eh? Anche
lei non è di qui”. Poi abbiamo parlato un pò mentre gli spiegavo il duomo e la
strada per arrivarci. “Come mai lei vive qui?” mi chiede. “Vede la luce? Ecco,
forse è per quella” Non so se ha capito. Ma come è possibile spiegare un
profumo? O un lampo di luce? O quella luna? Come si può parlare delle pagghiare
e della via del sale senza sentire le voci dei contrabbandieri di sale? Come è
possibile dire il perchè, io che non so muovere due passi di qualunque ballo,
rimango affascinato dalla taranta? E dalla pizzica? “E’ stato a Nardò?” “Si, bella cittadina”.
Però nulla sapeva della repubblica neritina, neppure della fame dei contadini.
Nulla dei murales ebrei. Conosceva le chiese e qualche dipinto, le apprezzava
anche. Ma accidenti. L’anima mancava. Guernica non è solo un quadro. E’ un
pezzo di storia. Munch e quell’urlo che è un quadro magari non bello in senso
assoluto, ma con un pathos, una forza evocativa, una violenza inaudite.
Accidenti alla luna e al mare. Accidenti al silenzio di
Castro.
Simone de Beauvoir diceva in non ricordo quale libro, che
quando arrivava in una città sconosciuta la visitava di giorno, ma non poteva
non passeggiarci tutta la notte. Per coglierne l’anima, i silenzi. Per vederne
il passato. Perchè la notte i muri parlano, parlano le chiese e i monumenti. La
notte accompagna e avvolge le storie lette o ascoltate. Mancava Chopin davanti
a quel mare. Sarebbe stato perfetto. Contaminare Chopin con acciughe, birra, la
luna, il suo riflesso nel mare può sembrare
blasfemo. Penso lo avrebbe apprezzato però.
Terminare così una giornata iniziata davanti ad una lapide,
in fondo, è la vita che per ora procede con lentezza, con fatica. Con il
pensiero fisso che torna: “E se tutto fosse stato già detto veramente?” - (scritto luglio 2011)
Tonino Bello: La stola e il grembiule
Forse a qualcuno può sembrare un'espressione irriverente, e l'accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Si, perché di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d'incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla né di casule, né di amitti, né di stole, né di piviali.
Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento!
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il "grembiule" nell'armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l'altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile...
Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.
Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.
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