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martedì 15 settembre 2015

In bicicletta senza rotelle...

L’amico Carlo ha messo un post su facebook che dice:

“Ieri ce l’ha fatta finalmente: ha pedalato da solo godendosi l’emozione di un risultato faticosamente raggiunto. La spinta con cui l’ho lanciato per togliere le ultime paure sarà uno dei ricordi che lui perderà col tempo, io no: la differenza fra essere figlio e padre.

Non so quanti anni avevo, ricordo però la strada con ciotoli al paese, l’asfalto, ahinoi, sarebbe arrivato solo negli anni ’60 avanzati. E ricordo la bicicletta con le rotelle, era azzurra, regalo di chissà chi e chissà per quale evento. La usai in primavera imparando a pedalare e a frenare da solo, senza neppure troppi consigli, era ovvio avere una bicicletta, era scontato avere rotelle di sostegno.
Ricordo che ogni tanto mio padre mi portava sulla sua, io seduto sulla canna, lui pedalava. Quando doveva fermarsi dal tabaccaio o per qualche altra piccola incombenza appoggiava la bicicletta al muro con me sopra, la metteva in sicurezza e mi diceva: “non muoverti, aspetta che arrivo subito”, io restavo immobile quei pochissimi attimi e lui tornava. Ero orgogliosamente fiero della mia immobilità che aveva tenuto la bicicletta in piedi. Non importa se era messa in modo da non poter cadere, quel che conta era il mio aver raggiunto il tragurdo, lo scopo.
La domenica mio padre prendeva la sua bicicletta da corsa e con gli amici andava a girovagare per il Monferrato. Lui tifò Coppi quando c’erano gli epici duelli con Bartali, era appassionato delle due ruote.
Sui ciotoli non era così facile andare le prime volte, però un giorno mio padre arrivò con gli attrezzi adeguati e decise di togliere le rotelle. Ero preoccupato, mi tranquillizzò: “non aver paura, ci sono io a tenerti, proviamo solamente, se è difficile le rimettiamo subito”. Salii titubante, iniziai a pedalare piano e, ammetto, un po’ di sghimbescio sui ciotoli, però c’erano le grandi mani di mio padre a reggermi da dietro, non lo vedevo ma ne sentivo la presenza, ero sicuro. Feci alcuni metri, poi altri. Si sa che in paese tutti conoscono tutti, così un signore che aveva osservato la scena con un sorriso complice (di mio padre) mi disse “bravo, ce l’hai fatta”. Solo allora frenai e misi i piedi a terra, solo allora mi voltai accorgendomi che mio padre era una ventina di metri lontano da me e non mi teneva più. Felicità mista a timore, mio padre sorrideva, era felice. Forse, chissà, pensava che non mi sarei  ricordato quel momento, ma lui si, l’avrebbe portato dentro di sé per una vita intera. Ancora vedo i ciotoli, ancora sento quelle mani che mi reggevano… ancora ricordo il volto del signore che mi sorrise. E di anni ne ho un sacco.
Non so perché io e mio padre non ne parlammo mai più. Mi piace pensare che si sia trattato di una complicità segreta, ognuno con il suo ricordo e la sua emozione, entrambi con lo stesso ricordo e simili emozioni.  
Anche mio padre si chiamava Carlo!  

P.s. - rileggendo pensavo alla meraviglia della mente umana. Un ricordo che stava in qualche cassettino, riposto e dormiente, cacciato fuori dalle parole di Carlo. Quasi non aspettasse l'ora di poter essere utilizzato. Penso che nessun computer possa eguagliare la meraviglia dell'immagazzinare ricordi, fatti, parole che ha la mente umana. Soprattutto nessun computer può metterci dentro l'emozione che si prova. 


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