"Étrange (straniero,
diverso) è una parola scomponibile: être-ange (essere-angelo). Dall'essere
angeli ci mette in guardia l'alternativa dell'essere stupidi." (J. Lacan,
Seminario XX, p. 9)
La
citazione di Lancan la rubo dall'amico Mimmo che su FB commentava l’ episodio a
cui ha assistito: un clochard costretto a consumare in una sala
d'aspetto un piatto che non aveva, evidentemente, diritto di mangiare al tavolo
della mensa accanto che glielo aveva fornito. Forse non poteva sedere a tavola
in quanto clochard, senza casa, senza tetto. Senza dignità?
E quelle parole mi
sono balzate in mente ieri sera, memorabile 10 dicembre 2014 in quel di Nardò.
Il teatro Comunale non è grande, ed è stipato di spettatori, Mario Perrotta ci
racconta Ligabue, “Un bes”.
L’attore (e autore)
non recita il personaggio, lui è il personaggio. Solo in scena in questo
crescendo carico di tensione emotiva, Ligabue che passa la vita dipingendo con
rabbia la mancanza di “un bes”, un bacio, dell’affetto che nessuno ha mai
saputo dargli. La Svizzera non sopporta i matti nel suo lindo territorio,
allora approfitta del cognome e della nazionalità del suo padre acquisito per
cacciarlo in Italia, il paese si chiama Gualtieri, in agro di Reggio Emilia. E
come ogni paese sopporta “el mat” “el tudesc”, il matto, il tedesco. Quel
bizzarro personaggio che girovaga per strade e boschi dipingendo e scambiando
quadri con un piatto di minestra, che parla un misto di emiliano e tedesco, che
guarda le donne e cerca solo, banalmente affetto. Ma l’è mat, neppure le
puttane lo vogliono “sono sporco, mi ha detto”.
Avevo già incontrato
Mario Perrotta quando presentava al pubblico per le prime volte il suo “Un
bes”, in una lunga intervista si diceva fra l’altro:
“Nella presentazione dici che Ligabue artista sapeva
di meritarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo”.
Certamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé
e del suo valore artistico. Amava ripetere: "quando sarò morto i miei
quadri varranno un sacco di soldi". Non era assolutamente lo scemo del
paese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo faceva perché gli
tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, avrebbe meritato attenzione e
sperava che quell'attenzione si concretizzasse anche in affetto da parte di
qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne
mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita.
Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a
volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare dei quadri in anticipo e
poi realizzando delle opere brutte (a suo stesso dire!).
“Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo
sito, parlando dello spettacolo, sono: “Voglio stare anch’io a guardare gli
altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quale il fuori”.
Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò in una
sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa dicendo: “Ciao da noi
chiusi dentro a voi chiusi fuori”.
Sicuramente lo "stare al margine" è una
condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri
emigranti degli anni '50 e '60. E' una condizione limite, appunto, che trova
rispondenza ancora una volta in un'esperienza profondamente mia legata
all'infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio
di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre
lottare per restare invece "all'interno della cerchia", tanto che
spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro,
esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile
il passaggio da un "palcoscenico" all'altro).
Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul
limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un
ricordo mentre, per quanto concerne la condizione di "malato di
mente", è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite
sono i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone
ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di mente ti
trovi oltre essi e quindi sei "fuori". Fuori dal consesso umano che
ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono
"sani", guardando le mura di un manicomio si definiscono
"fuori", mentre i malati sono "dentro". E allora? Qual è il
dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceraria e in
qualunque condizione di diversità sancita da un confine: esso stesso determina
un dentro e un fuori differente secondo il lato su cui ci si trova. Mi viene in
mente una parola leccese - 'ppoppeti - che i cittadini di Lecce usano per
indicare in modo irriverente "quelli di provincia". Il suo etimo è
latino e cioè: post oppidum, oltre le mura della città.
Il guaio è che anche "quelli di provincia"
usano la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza "quelli
della città" perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo
effettivamente 'ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un
confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare
situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine
ad essere sbagliato.
E in altra intervista
pubblicata recentemente sulla rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il
Delfino e la mezzaluna” alle pagg. 216/223, racconta dell’impellenza di parlare della
diversità, di viverla:
Vorrei farti una domanda personale. Sei diventato padre, ne vuoi parlare?
il progetto Ligabue nasce per questo. sapevo che sarei
diventato padre di un bimbo o una bimba che arrivava dal centro africa. Non
sapevo da dove nè l’età, né il sesso, l’unica certezza era che sarebbe stato
nero. Per qualcuno è un problema, per me una ricchezza. Gabriele è arrivato
dall'Etiopia e un giorno vorrà riscoprire le sue tradizioni. So che qualcuno
gli farà notare la sua differenza. Mi sono chiesto se saremo in grado di aiutarlo
a superare questi scogli. Lo sapremo un tempo. Queste tensioni mi hanno fatto
tirar fuori
il progetto Ligabue. Un “diverso” era la figura che mi
permetteva di parlare di me e delle mie tensioni. Come vedi non è una domanda personale, è
artistica. i miei testi sono le mie urgenze. Privato e scena si intrecciano.
Parole nella quali la
parte “razionale” ha il sopravvento, è la logica dell’offrire una visione della
diversità al pubblico, del dare un senso a quella che chiamiamo pazzia giusto
per togliercela di torno e tornare alla nostra “normalità” mentre “el mat”
crea, vede il mondo con occhi diversi, rivendica un bes, un abbraccio,
comprensione non per il suo stato ma per il suo essere “umano”. Il paese lo
deride ma acquista i suoi quadri, i “normali” si fanno dipingere il furgoncino
che poi rottameranno senza rendersi conto di quel che fanno, pur se legati a
filo doppio al valore venale, al denaro, neppure sanno di aver rottamato
un’opera d’arte, lo capiranno solo quando l’artista morirà e i suoi quadri
avranno l’onore di essere “opere d’arte”.
Allora non avevo avuto
l’occasione e il piacere di vedere lo spettacolo, ne avevo solo parlato con Mario.
Arrivò in primavera a Lecce, è vero, ma per una sola sera e in un teatro
piccolo per un artista così immenso, il Paisiello, non trovai il biglietto. Ora
è tornato in un teatro altrettanto bello e altrettanto piccolo. Ancora una
volta per una sola sera. L’ho visto ed ho capito di getto tutte le cose che
Mario, in due interviste, non è stato capace di dirmi, non poteva farlo:
l’impatto emotivo dello spettatore. Commuoversi di fronte ad una piéce teatrale
non è usuale per me, lasciarsi andare e passare dalla storia narrata a “oltre
la storia” non è facile. Questa volta è successo, ed ho visto altre lacrime fra
gli spettatori. Mi sono commosso e sono riuscito a trapassare la storia
narrata, a veder nascere quadri (Mario in scena disegna anche bene con tratti
di carboncino su fogli grandi). Ho visto la grandezza del diverso e l’immensità
dell’artista. Ho visto, per dirla con Lacan, un Étrange, un angelo
rabbiosamente fiero e senza l’affetto che lo renderebbe una persona altra,
diversa.
E tornando a Lecce,
nella notte limpida e senza luna, pensavo a come sono grette le città di
provincia, a volte, quando disdegnano i loro geni, li emarginano, li snobbano.
Lecce austera potrebbe, dovrebbe riabbracciare con serena calma e pacatezza i
suoi “mat”, i guitti, quelli che scommettono e creano. Dovrebbe riconoscere gli
artisti quando ancora hanno molto da dare. Qui ed ora per favore!
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