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lunedì 17 marzo 2014

Quando naufraga Utopia

utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia(1516), con le voci greche ο «non» e τπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]  Così il dizionario Treccani. 

Utopia, mai nome fu più azzeccato forse, per un piroscafo. Era il 1891, quel 17 marzo il piroscafo inglese Utopia passava da Gibilterra. Partì da Trieste, poi Palermo, e ancora Napoli. Caricò Persone, contadini calabresi, campani, abruzzesi. Tutti quanti volevano crearsi una vita oltre oceano. Avevano una speranza e sicuramente molta angoscia, storie che si ripetono. Lingue sconosciute, quel mare che non finisce mai. Roba da migranti, appunto. Tanto simile ad altri piccoli naufragi che hanno traformato il mare nostrum in un immenso cimitero nel quale non conoseremo mai il numero esatto di cadaveri. Utopia arrivò alle 18,00 circa con il suo carico di “3 passeggeri di prima classe, 3 clandestini, 59 membri dell'equipaggio agli ordini del capitano John McKeague e 813 emigranti, quasi tutti italiani.” Davanti al porto di Gibilterra, il mare era impazziro, la visibilità al minimo. Il comandante decise di entrare in porto, forse sbagliò manovra, chissà, Utopia andò a sbattere contro la corazzata inglese Anson e si piegò, si adagiò nell’acqua, colò a picco. Utopia, i migranti la chiamavano Tobia.
Ancora non sappiamo se i morti furono solo 563 come dicono i dati ufficiali. Utopia non era mica il Titanic, la nave dei ricchi, era solo un bastimento carico di migranti, poveri cristi, umili, contadini. Neppure parlavano lingue diverse dal loro dialetto. Nessuno ha mai fatto uno straccio di film su di loro.  Dei 300 sopravvissuti molti ripresero il viaggio, altri tornaron oa casa. Senza aver fatto fortuna.

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