Commenti

Non pubblicheremo commenti anonimi.

lunedì 11 febbraio 2013

Tutto è cultura?



Tuttu è cultura,
e sta parola me face paura,
sarà ca sbaju vocabolariu,
ma tutte ste cose le chiamerei "sguariu"
(Mino De Santis – Tuttu è cultura)

Nell’ex chiesa di San Sebastiano, a Lecce venerdi 8 febbraio si è tenuto un incontro per parlare di cultura. Il titolo era accattivante. “E se iniziassimo con la cultura? Casi regionali e progetti nazionali”
Hanno partecipato: il sociologo Franco Cassano, candato al Parlamento con il PD, lo storico Andrea Carlino, Fernando Blasi per Sud Sound System, l’antropologo Gianni Pizza, Antonio Princigalli di Puglia Sound, il regista Maurizio Sciarra e Massimo Bray, candidato nelle fila del PD al Parlamento, dell’Istituto Treccani e presidente della Fondazione Notte della Taranta. Proprio a Massimo Bray è indirizzata una lettera con firme illustri della cultura italiana, in cui si chiede, in estrema sintesi, di tornare a fare cultura e di impegnare i suoi giorni in Parlamento ad occuparsi di far rinascere il paese e a contribuire a “superare l’imbarbarimento e la conseguente crisi culturale italiana, che hanno toccato toni drammaticamente acuti in quest’ultimo ventennio”.
Un declino assolutamente non casuale, secondo l’antropologo Gianni Pizza l’incultura dell’ultimo devastante ventennio è essa stessa una forma di cultura in quanto la crisi dei saperi va di pari passo con quella della democrazia. Cultura non significa tout court dimostrazione di bravura nell’elaborazione di manufatti, opere, scritti, ma deve essere, tornare ad essere, il vivere quotidiano, in un’interazione fra il vissuto e il governo delle cose. In buona sostanza, la cultura deve essere quello strumento che permette di vivere anzichè  sopravvivere.  Da questo punto di vista è indispensabile di tornare a parlarne.
Franco Cassano ha detto di come la primavera pugliese sia iniziata nel 92, con gli sbarchi degli albanesi, quando si è inizato a guardare oltre i confini, oltre Roma, quando si capì che c’era un mondo intero là fuori con cui rapportarsi. E da allora si scoprì che esistono modi nuovi di narrare.
E Franco Bray dice di guardare cosa succede negli U.S.A. dove Obama ha parlato di diritti e di speranze mentre in Italia dobbiamo tornare a vedere il mond oa colori, uscire dal bianco e nero di questi incredibili anni; invece la cultura, “come un campo, deve essere coltivata perché non cresca gramigna”.
La domanda ai politici e futuri parlamentari ed agli amministratori dovrebbe andare proprio in questa direzione. La Puglia, il Salento in particolare, sembrano vulcani in continua eruzione: film, libri, editoria, festival, notti della taranta e via dicendo. Il problema è capire quanto queste rappresentazioni siano fini a sé  stesse e quanto lascino di “non tangibile” sul territorio. Comprendere la differenza, ad esempio, fra la notte della taranta e il premio Barocco, Il volano economico e turistico è sicuramente importante, però occorre rinascere nel senso più nobile del termine, rifarsi società, tornare a comprendere gli accadimenti e governarli. In caso contrario, se si bada al mero ritorno economico, produrre festival e notti musicali e produrre taralli è assolutamente la stessa cosa, non esiste un valore aggiunto che la cultura dovrebbe dare. Tornare a fare cultura del territorio, del paesaggio non ad uso e consumo dei turisti (magari mordi e fuggi), ma dei salentini tutti che nel quotidiano vivono la loro terra, significa riallacciare, come diceva Fernando Blasi  dei Sound S.S.  il dialogo interrotto fra generazioni.
Per fare tutto ciò, ne erano consapevoli tutti gli interventi, occorre ricostruire dalle ceneri del terremoto degli ultimi vent’anni in cui si sono tolti finanziamenti a quella cosa che “non si mangia” come disse un ministro dell’economia che con tutta evidenza non è in grado di fare due conti, l’industria culturale italiana è seconda come addetti solo a quella automobilistica. Ma questi dati sembrano non interessare. Meglio vedere Pompei che cade a pezzi, meglio vedere i soffitti degli Uffizi che crollano. Meglio passare da un’agricoltura intelligente ad una fatta di pannelli fotovoltaici o pale eoliche e costruire strade a quattro, magari sei corsie. Emblematica la presa di posizione dei costruttori leccese in questi giorni, che ipotizzano una crescita in verticale della città, abbattendo edifici vecchiotti per costruire grattacieli. Non sempre essere produttori di beni materiali equivale ad avere visione ampia delle cose. Troppo spesso, ci insegna quest’ulimo ventennio, si bada al mordi e fuggi, alle feste di una sola notte estiva. In realtà si avrebbe necessità di riaprire le porte al dialogo con il territorio, comprendere se sia meglio il ponte sullo stretto piuttosto che rirpristinare la viabilità in Sicilia e comprendere se sia meglio in Salento fare una mobilità morbida, servita magari dalle ferrovie del sud est o asfaltare uliveti. Forse la strada per ripensarsi, per tornare a fare cultura in un mondo di sagre del lampacione spacciato per l’unico sapere e lasciare ricadute non esclusivamente economiche sul territorio è la strada.

Nessun commento:

Posta un commento