Tuttu è
cultura,
e sta parola
me face paura,
sarà ca sbaju
vocabolariu,
ma tutte ste
cose le chiamerei "sguariu"
(Mino De
Santis – Tuttu è cultura)
Nell’ex chiesa di San Sebastiano, a Lecce venerdi 8 febbraio si è tenuto un
incontro per parlare di cultura. Il titolo era accattivante. “E se iniziassimo
con la cultura? Casi regionali e progetti nazionali”
Hanno partecipato: il sociologo Franco Cassano, candato al
Parlamento con il PD, lo storico Andrea Carlino, Fernando Blasi per Sud Sound
System, l’antropologo Gianni Pizza, Antonio Princigalli di Puglia Sound, il
regista Maurizio Sciarra e Massimo Bray, candidato nelle fila del PD al
Parlamento, dell’Istituto Treccani e presidente della Fondazione Notte della
Taranta. Proprio a Massimo Bray è indirizzata una lettera con firme illustri della
cultura italiana, in cui si chiede, in estrema sintesi, di tornare a fare
cultura e di impegnare i suoi giorni in Parlamento ad occuparsi di far
rinascere il paese e a contribuire a “superare l’imbarbarimento e la
conseguente crisi culturale italiana, che hanno toccato toni drammaticamente
acuti in quest’ultimo ventennio”.
Un declino assolutamente non casuale, secondo l’antropologo
Gianni Pizza l’incultura dell’ultimo devastante ventennio è essa stessa una
forma di cultura in quanto la crisi dei saperi va di pari passo con quella
della democrazia. Cultura non significa tout court dimostrazione di bravura
nell’elaborazione di manufatti, opere, scritti, ma deve essere, tornare ad
essere, il vivere quotidiano, in un’interazione fra il vissuto e il governo
delle cose. In buona sostanza, la cultura deve essere quello strumento che
permette di vivere anzichè
sopravvivere. Da questo punto di
vista è indispensabile di tornare a parlarne.
Franco Cassano ha detto di come la primavera pugliese sia
iniziata nel 92, con gli sbarchi degli albanesi, quando si è inizato a guardare
oltre i confini, oltre Roma, quando si capì che c’era un mondo intero là fuori
con cui rapportarsi. E da allora si scoprì che esistono modi nuovi di narrare.
E Franco Bray dice di guardare cosa succede negli U.S.A.
dove Obama ha parlato di diritti e di speranze mentre in Italia dobbiamo
tornare a vedere il mond oa colori, uscire dal bianco e nero di questi
incredibili anni; invece la cultura, “come un campo, deve essere coltivata perché
non cresca gramigna”.
La domanda ai politici e futuri parlamentari ed agli
amministratori dovrebbe andare proprio in questa direzione. La Puglia, il
Salento in particolare, sembrano vulcani in continua eruzione: film, libri,
editoria, festival, notti della taranta e via dicendo. Il problema è capire
quanto queste rappresentazioni siano fini a sé
stesse e quanto lascino di “non tangibile” sul territorio. Comprendere
la differenza, ad esempio, fra la notte della taranta e il premio Barocco, Il
volano economico e turistico è sicuramente importante, però occorre rinascere
nel senso più nobile del termine, rifarsi società, tornare a comprendere gli accadimenti
e governarli. In caso contrario, se si bada al mero ritorno economico, produrre
festival e notti musicali e produrre taralli è assolutamente la stessa cosa,
non esiste un valore aggiunto che la cultura dovrebbe dare. Tornare a fare
cultura del territorio, del paesaggio non ad uso e consumo dei turisti (magari
mordi e fuggi), ma dei salentini tutti che nel quotidiano vivono la loro terra,
significa riallacciare, come diceva Fernando Blasi dei Sound S.S. il dialogo interrotto fra generazioni.
Per fare tutto ciò, ne erano consapevoli tutti gli
interventi, occorre ricostruire dalle ceneri del terremoto degli ultimi
vent’anni in cui si sono tolti finanziamenti a quella cosa che “non si mangia”
come disse un ministro dell’economia che con tutta evidenza non è in grado di
fare due conti, l’industria culturale italiana è seconda come addetti solo a
quella automobilistica. Ma questi dati sembrano non interessare. Meglio vedere
Pompei che cade a pezzi, meglio vedere i soffitti degli Uffizi che crollano.
Meglio passare da un’agricoltura intelligente ad una fatta di pannelli
fotovoltaici o pale eoliche e costruire strade a quattro, magari sei corsie.
Emblematica la presa di posizione dei costruttori leccese in questi giorni, che
ipotizzano una crescita in verticale della città, abbattendo edifici vecchiotti
per costruire grattacieli. Non sempre essere produttori di beni materiali
equivale ad avere visione ampia delle cose. Troppo spesso, ci insegna
quest’ulimo ventennio, si bada al mordi e fuggi, alle feste di una sola notte
estiva. In realtà si avrebbe necessità di riaprire le porte al dialogo con il
territorio, comprendere se sia meglio il ponte sullo stretto piuttosto che rirpristinare
la viabilità in Sicilia e comprendere se sia meglio in Salento fare una
mobilità morbida, servita magari dalle ferrovie del sud est o asfaltare uliveti.
Forse la strada per ripensarsi, per tornare a fare cultura in un mondo di sagre
del lampacione spacciato per l’unico sapere e lasciare ricadute non
esclusivamente economiche sul territorio è la strada.
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