Il
linguaggio cambia. Quando ero giovane sentir parlare di cellulare era
inquietante. Evocava sbarre e spostamenti di persone e personaggi da un carcere
a un tribunale. E i cellulari spesso erano nei pressi delle manifestazioni.
Oggi è tutto diverso. Il cellulare è quell’aggeggio infernale che negli anni ‘90
non volevo neppure vedere perché era un oggetto del quale si doveva fare a
meno, soprattutto se politicamente corretti e di sinistra, perché era sinonimo
di rampantismo e di nuova economia. Oggi è uno status non averlo. Ora ci sono gli sms che hanno fatto piazza
pulita delle più elementari norme di grammatica e sintassi. La maledetta K, per
dirne una. E quegli strani furgoni blu scuro con sbarre ai finestrini come
potremmo chiamarli per distinguerli?
Però
oggi siamo raggiungibili sempre. Un tempo chiamando si diceva “ciao, sono io,
come va?” oggi la domanda è: “ciao, dove sei?” E che gli frega di sapere dove
sono? E’ un controllo? Mala tempora currunt per chi ha necessità di avere una
risposta pronta sempre. Magari per coprire piccole tresche. E si che un tempo
il telefono era una cosa seria. Ricordo il primo che entrò a casa mia. Era
nero. Appeso alla parete come neppure un quadro di Carrà. Quando suonava si
sentiva da lontano. Non c’erano melodie. Era un trillo che perforava i timpani
di chi stava troppo vicino. Ed era complicatissimo fare quelle che allora si
chiamavano (come spiegarlo a chi ha meno di trent’anni?) le interurbane. Bisognava fare il prefisso, parola che entrò
prestissimo nell’uso comune, anche mia nonna lo diceva con disinvoltura. E le
maledette interurbane costavano. Mamme e papà erano dietro che urlavano di fare
in fretta. Però ancora prima i prefissi non c’erano. Per chiamare fuori
distretto occorreva fare il 10. Rispondeva una signorina (chissà perché non era
mai sposata, ma sempre e solo signorina). Le comunicavi il numero da chiamare e
il luogo, riattaccavi e dopo un tempo variabile dai 10 minuti alla mezz’ora a
seconda del traffico in linea, richiamava e diceva “Genova in linea”. E
parlavi. Dopo tre minuti la signorina si inseriva nella tua conversazione
(altro che privacy) e diceva “tre minuti, prosegue?”. Così, giusto per
cadenzarti i tempi e i costi. Chissà se ascoltava tutta la conversazione.
Ed i telefoni privati
erano veramente pochi. Nel paese il posto pubblico solitamente era il bar. Chi
doveva chiamare componeva il 10 e si accomodava a un tavolino, magari per un
caffè, il tempo non mancava. Dopo un po’, lo squillo sentito da tutti,
rispondeva il barista ed entrava in sala urlando “interurbana da Genova”. Era
comunque sempre un’emozione. Quando poi era Roma in linea il barista
fibrillava. E non mancava di comunicarlo al ritardatario che si era perso
l’evento: “sta parlando con Roma”. Nel
frattempo uno strano marchingegno contava rumorosamente gli scatti. Oppure, soprattutto nei piccoli paesi, se si
doveva essere rintracciati, il chiamante fissava con il barista un appuntamento
“chiamo stasera alle otto, avverti mia madre”. A pensarci ora fu proprio il
telefono ad aprire le porte del bar sport alle signore. La mamma con la figlia o il figlio sposati che
vivevano in capo al mondo otteneva tutta la solidarietà del paese quando doveva
telefonare. Poi arrivò il prefisso. Peccato. Si andava al bar comunque, però nessuno
sapeva se stavi telefonando ad Alessandria o a Torino. Solo l’esperienza del
barista che valutava l’intervallo degli scatti poteva azzardare qualche
ipotesi. Fino all’invasione. Un telefono in ogni casa. A volte due. E fuori
arrivarono le cabine con i gettoni. Per fare un’interurbana bisognava munirsi
di un kg di metallo. E’ stata la vera fine della figura del
barista/centralinista. Ora come facciamo a sapere se il nostro vicino ha
contatti con Madrid piuttosto che con paesi meno ameni e vicini? E che fine
avranno fatto le Signorine? Ricordo
qualche lettore di fantascienza che raccontava favole irreali. Parlavano
addirittura di telefoni che si potevano portare in giro per tutta la casa senza
fili. Roba da altri mondi. Però noi che siamo riusciti a sopravvivere a tutto
questo ora sappiamo che la più sfrenata fantasia non supera mai la realtà.
Pensate se qualcuno negli anni 70 avesse ipotizzato, per esempio, che lo
scranno di Pertini sarebbe appartenuto a, che so, un Bossi qualunque. Gli
avremmo consigliato quanto meno un buon psichiatra.
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