Commenti

Non pubblicheremo commenti anonimi.

venerdì 7 settembre 2012

cellulari o... cellulari?


Il linguaggio cambia. Quando ero giovane sentir parlare di cellulare era inquietante. Evocava sbarre e spostamenti di persone e personaggi da un carcere a un tribunale. E i cellulari spesso erano nei pressi delle manifestazioni. Oggi è tutto diverso. Il cellulare è quell’aggeggio infernale che negli anni ‘90 non volevo neppure vedere perché era un oggetto del quale si doveva fare a meno, soprattutto se politicamente corretti e di sinistra, perché era sinonimo di rampantismo e di nuova economia. Oggi è uno status non averlo.  Ora ci sono gli sms che hanno fatto piazza pulita delle più elementari norme di grammatica e sintassi. La maledetta K, per dirne una. E quegli strani furgoni blu scuro con sbarre ai finestrini come potremmo chiamarli per distinguerli?
Però oggi siamo raggiungibili sempre. Un tempo chiamando si diceva “ciao, sono io, come va?” oggi la domanda è: “ciao, dove sei?” E che gli frega di sapere dove sono? E’ un controllo? Mala tempora currunt per chi ha necessità di avere una risposta pronta sempre. Magari per coprire piccole tresche. E si che un tempo il telefono era una cosa seria. Ricordo il primo che entrò a casa mia. Era nero. Appeso alla parete come neppure un quadro di Carrà. Quando suonava si sentiva da lontano. Non c’erano melodie. Era un trillo che perforava i timpani di chi stava troppo vicino. Ed era complicatissimo fare quelle che allora si chiamavano (come spiegarlo a chi ha meno di trent’anni?) le interurbane.  Bisognava fare il prefisso, parola che entrò prestissimo nell’uso comune, anche mia nonna lo diceva con disinvoltura. E le maledette interurbane costavano. Mamme e papà erano dietro che urlavano di fare in fretta. Però ancora prima i prefissi non c’erano. Per chiamare fuori distretto occorreva fare il 10. Rispondeva una signorina (chissà perché non era mai sposata, ma sempre e solo signorina). Le comunicavi il numero da chiamare e il luogo, riattaccavi e dopo un tempo variabile dai 10 minuti alla mezz’ora a seconda del traffico in linea, richiamava e diceva “Genova in linea”. E parlavi. Dopo tre minuti la signorina si inseriva nella tua conversazione (altro che privacy) e diceva “tre minuti, prosegue?”. Così, giusto per cadenzarti i tempi e i costi. Chissà se ascoltava tutta la conversazione.
Ed i telefoni privati erano veramente pochi. Nel paese il posto pubblico solitamente era il bar. Chi doveva chiamare componeva il 10 e si accomodava a un tavolino, magari per un caffè, il tempo non mancava. Dopo un po’, lo squillo sentito da tutti, rispondeva il barista ed entrava in sala urlando “interurbana da Genova”. Era comunque sempre un’emozione. Quando poi era Roma in linea il barista fibrillava. E non mancava di comunicarlo al ritardatario che si era perso l’evento: “sta parlando con Roma”.  Nel frattempo uno strano marchingegno contava rumorosamente gli scatti.  Oppure, soprattutto nei piccoli paesi, se si doveva essere rintracciati, il chiamante fissava con il barista un appuntamento “chiamo stasera alle otto, avverti mia madre”. A pensarci ora fu proprio il telefono ad aprire le porte del bar sport alle signore.  La mamma con la figlia o il figlio sposati che vivevano in capo al mondo otteneva tutta la solidarietà del paese quando doveva telefonare. Poi arrivò il prefisso. Peccato. Si andava al bar comunque, però nessuno sapeva se stavi telefonando ad Alessandria o a Torino. Solo l’esperienza del barista che valutava l’intervallo degli scatti poteva azzardare qualche ipotesi. Fino all’invasione. Un telefono in ogni casa. A volte due. E fuori arrivarono le cabine con i gettoni. Per fare un’interurbana bisognava munirsi di un kg di metallo. E’ stata la vera fine della figura del barista/centralinista. Ora come facciamo a sapere se il nostro vicino ha contatti con Madrid piuttosto che con paesi meno ameni e vicini? E che fine avranno fatto le Signorine?  Ricordo qualche lettore di fantascienza che raccontava favole irreali. Parlavano addirittura di telefoni che si potevano portare in giro per tutta la casa senza fili. Roba da altri mondi. Però noi che siamo riusciti a sopravvivere a tutto questo ora sappiamo che la più sfrenata fantasia non supera mai la realtà. Pensate se qualcuno negli anni 70 avesse ipotizzato, per esempio, che lo scranno di Pertini sarebbe appartenuto a, che so, un Bossi qualunque. Gli avremmo consigliato quanto meno un buon psichiatra.

Nessun commento:

Posta un commento