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domenica 23 ottobre 2011

la nave dei folli

Scritto mesi fa......


 E disse «Andiamo si va per partire
il vento già spacca già gonfia le vele
e l'àncora-angoscia per mille e più braccia
già leva dal fango di mille miserie»

«Non posso» - risposi - «le mille valigie
di questa partenza mi legano al mondo;
io per partire le devo lasciare
però senza quelle per me non c'è volo»

Mi disse: «Il bagaglio di mille paure
per mille d'angosce di vecchie certezze
per mille speranze di cane deluso
che resta bastardo tra mille carezze»

Mi disse: «È questo che devi lasciare
sul molo del tempo per una speranza
raccogli il tuo sporco e tienilo stretto
ché altro non serve per fare allegria»

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

È piena la nave dei cani delusi
rimasti bastardi tra mille carezze
è bello vederli coi pugni ben chiusi
tenersi lo sporco, lasciar le promesse

dei mondi civili dei mille ritratti
quadrati perfetti del senso comune
cornici di forme a specchio pulite
così che la rabbia si umilia nell'arte

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

E guardo la vela di fogli di carta...
mi volto e lontano sul molo già vedo
con l'occhio civile l'esperto dell'arte
cercare l'orgasmo sui mille bagagli

Lo guardo felice e lancio la pietra:
si ferma nel cielo più grigio di lastra,
nel cielo si affila a lama sicura
che piomba, ti sfiora babbeo e ti castra

La nave dei folli veleggia veloce
il foglio garrisce nel gioco di parte;
sul bianco compare ben rossa una croce:
un altro caduto sul campo dell'arte

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

Milano spaccata tra uffici e stazioni
tra fabbriche e chiese tranciate ridendo
passate sul filo di spada e di prua:
la nave dei cani veleggia sicura

A notte coi pugni ben chiusi d'amore
guardando la scia dei mille rottami
di arte e cultura, d'angosce d'autore
dei mille valori metropolitani:

a noi cani sporchi più volte delusi
rimasti bastardi tra mille carezze
ci prende la voglia di aprire le mani
di unire alle vele le nostre bandiere

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

E quando spaccata ogni vecchia cultura
che è anche nostra e che abbiamo lasciata
tra mille valigie sui moli d'angoscia
nel porto dell'arte timbrata e schedata:

potremo guardare la scelta futura
la scelta dei cani bastardi nell'ossa
e ancora una volta e chiedersi ancora
se ancora tentare se ancora si possa

E allora trovando negli occhi compagni
la voglia e la gioia di essere bimbi
ognuno già bimbo dirà: «Certo è mia:
si può si può fare la nave è anche mia

La nave del sogno è mia per ragione,
è nostra per scelta di cani delusi
che sanno creare tenendo lo sporco
ben stretto e cosciente tra pugni rinchiusi».

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

La nave dei folli che rompe in letizia
la vecchia cultura con nuova allegria
e tutto il dolore già trancia sul ferro
del grande lucchetto per dare la via

al volo finale di tutto l'amore
al volo finale della fantasia
e ridere al tempo di oggi struttura
eletta a potere della borghesia

E ancora più bimbi con carta e bandiere
guardando diritto il solo pennone
faremo la danza dei cani delusi
coi pugni serrati per nuova illusione

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

La nave dei folli eletta a "ragione"
per segno diventa parola e poesia
diventa creazione per rivoluzione
per l'attimo solo, ma di fantasia

diventa creazione per rivoluzione
per l'attimo solo, ma di fantasia 

http://www.youtube.com/watch?v=xMOEYobmWqA




[Ivan Della Mea (Luigi all’anagrafe) – Lucca 16/10/40- Milano 14/6/09)]





La partenza sulla “nave dei folli”, andare lasciando sul molo le valigie che  legano a questo mondo. Una cultura forzata, innaturale. Il mondo che diventa plurale, così siamo più tranquilli, ci sono più mondi, il primo e il terzo. Toh la natura che provvede a farci sentire meno idioti e colpevoli.  Le persone divise per caste e incasellate,  ognuna nel suo scaffale. Poveri, ricchi, morti di fame, morti di morbillo, il nuovo SUV che scavalca montagne, la Ferrari e la 500 vecchio tipo che si incontrano su una strada secondaria. Tutto ovvio, scontato, normale. Morire soffrendo e non poter morire con la leggerezza della cura del dolore. Normale, ovvio, scontato che si bombardi da qualche parte. Ovvio, normale e scontato che si seppelliscano rifiuti tossici e nocivi dove crescerà insalata o raccoglieremo funghi.
"Creare cultura” sulla nave che salpa, tenendo i pugni chiusi per non mostrare lo sporco. Sulla nave c’è la speranza, in un mondo fatto di “cani delusi rimasti bastardi fra mille carezze”. E i bagagli finalmente lasciati sul molo, mentre il battello carico di folle follia è in mare, quasi lontano, sono prede per gli “esperti dell’arte” che cercano l ’orgasmo su di loro. Frugano, cani da riporto, per difendere quel che le valigie contengono.  E poco importa che la vela sia foglio di carta, finchè resiste si va. Poi passa, poi passa, nessun problema, si disferà di fronte al primo tsunami e tutto tornerà come prima. Qualche relitto, qualche pezzo di legno marcio.  Una speranza in mare, la ribellione di miseri straccioni impazziti,  mille cuori che cercano un sogno e che, tutto sommato, non sanno capire il mondo così com’è. A quello servono gli esperti dell’arte. Loro no, sono illusi utopisti che ci provano. Rischiano anche il naufragio pur di navigare senza bussola. Si voltano indietro a guardare il vecchio mondo nelle valigie piene di polvere. E poi, sulla nave, la notte aprono i pugni per “unire alle vele le nostre bandiere”. Non fa nulla ,è solo un sogno, lasciamolo andare leggero come una foglia.
E si squarciano le antiche culture di cui abbiamo piena la testa. Cultura che è nostra, ma è “di padrun”. Imposta, ipoteca sul futuro senza una nave che salpi, senza volerci credere.  In fondo non è nostra.
E la nave invece: “è anche mia”. “Si può fare… si può fare”. “La nave del sogno è mia per ragione, è nostra per scelta di cani delusi”. Finchè diventa parole, diventa poesia. L’arte, quella che gli esperti sul molo non comprenderanno forse mai. Tagli, come quelli di Fontana. Sacchi, come quelli di Burri. Uscire fuori dal quadro, penetrarlo quasi come in un orgasmo.
Un sogno in quella nave, un periodo lungo un secolo e anche più. Non so perché oggi, non so perché qui ho voluto riascoltare Ivan che cantava la follia lucida e coraggiosa. Anzi, lo so, il pragmatismo è omologazione, giovani senza utopie sono senza speranze. “Siamo nel 2011, non abbiamo ideali come i vostri”. Dicono ragazzi nuovi e freschi, così vecchi, così antichi. Così senza neppure i tempo di essere ragazzi. Nei moli del grande fratello arrugginiscono navi coraggiose e fiere. “Quanto dolore per dare allo svolo di te fantasia un attimo solo”. Costa abbandonare bagagli sicuri, nel tempo dell’incertezza e della precarietà. Non c’è più il posto fisso, anzi, non c’è più il posto. Il lavoro bisogna crearlo, immaginarlo, inventarlo. Partono i ragazzi, vanno in Transilvania o in Canada a cercare un posto, non un luogo, proprio un posto. Per cominciare a provarci a vivere, a creare, ad essere, finalmente, persone. Non hanno tempo per lasciare bagagli sul molo, anche se sono valigie piene di un vuoto strambo, quelle che abbiamo consegnato loro con tutta la nostra  vergogna per un mondo così putrefascente, con moli dismessi e senza utopie. Un mondo che pare non avere speranze. Rincorse a perdifiato su crinali di colline che erano verdi.    Forse è   tempo di chiudere un capitolo di impotenza e provare a gonfiare un canotto, solo quello, giusto per iniziare, lasciando il pragmatismo a chi è “maestro” di coerenza, a chi ha la verità in tasca per risolvere ogni problema. A loro “gli esperti dell’arte” che sanno così bene rovistare nella palta per “dare la linea”. Riprendersi la gioia, riprendere la follia, riprendere il sogno. E poi lo sappiamo, si vive una volta sola, tanto vale vivere.   Guardava in silenzio il mare la donna sul molo, era sera, dietro c’erano ragazzi mano nella mano. Uno strano sole cadeva là sotto, portandosi appresso una giornata passata come altre mille e ancora mille. Chissà perché piangeva guardando il mare. Passano notizie nel telegiornale, tutte uguali da mesi, da anni, forse da sempre. Ivan è morto in giugno qualche anno fa. Si è portato via la sua nave e i suoi sogni. Ha lasciato una valigia vuota, non aveva culture da lasciare, solo canzoni e parole. “Un attimo solo ma di fantasia”. Crollano muri come scatoloni vuoti che prima contenevano frigoriferi di plastica e alluminio. Abbiamo costruito muri falsi, finti come il PIL. Economia domestica, economia delle banche che rubano  quattrini a chi ne ha già pochi. Noi nel mondo detto primo. Ma pare normale a qualcuno che si debba difendere la Costituzione? “Ogni cittadino è uguale davanti alla legge”. Difendere un’ovvietà?  Culture diverse o scontro fra barbarie di varia provenienza? Ma pare ovvio che si debba difendere la dichiarazione universale dei diritti umani?  Articolo 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” Difendere un’altra ovvietà? Tempo perso per chi vorrebbe vivere dignitosamente.  “Non è più tempo di sogni, vedete di crescere, avete giocato a fare la rivoluzione, ora tutto torna come prima”. E noi qui a prenderci le misure. Come il becchino dei film western che misurava il pistolero per preparargli la cassa giusta. “Quello è troppo comunista, quell’altro troppo socialista, quello là in fondo, si, quello con la barba bianca, non ha il senso della realtà”. Parliamone, parliamoci. Anzi, andiamo a guardare il mare bevendo pinte di vino rosato e mangiando pane e mortadella. “Non possiamo sparare ai clandestini sulle barche, per ora” dice Castelli, un viceministro. “A quelli bisognerebbe sparare” dice Speroni, un eurodeputato. “Loro vogliono che il figlio dell’operaio e quello del professionista abbiano le stesse opportunità” dice Silvio B. da Arcore. “Sapesse contessa….”

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