“Non conosco nulla al mondo che
abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a
quando non comincia a splendere” (Emily Dickinson)
Le parole possono essere dure, leggere, seducenti, ammaliatrici, vili, pesanti.
A volte volano leggere, arrivano da fuori quando si è assorti in pensieri altri, fatti anch'essi di parole. Frasi, poesie, romanzi, l’amore detto, cantato, urlato. Le parole
del silenzio, quelle non dette ma che turbinano in testa, le parole scordate e
quelle da dimenticare. Libri, migliaia di parole su pagine, avvolgono leggere e
leggiadre, ti portano fuori, in un mondo forse non tuo, ma solo tuo in quel momento. E
quando il libro termina sei triste perché ti mancheranno quelle parole, allora
ne cercherai altre, e poi altre ancora. Così scrivi impetuoso come un torrente,
e, come dice Emily, le guardi, a volte te ne innamori, altre volte ti chiedi
“ma le ho scritte io?” Non ti capaciti, perché il pensiero libero si è
scatenato fra un muretto a secco e uno stradello di campagna, fra un sorriso e
una nostalgica malinconia, fra mare e cielo. Allora cerchi altre parole, anzi, loro trovano te
nel loro svolazzare come farfalle. E’ il momento in cui si sciolgono passando
dal cuore alla tastiera senza volteggiare nel “logico/illogico”, rileggerai
poi, dopo, a fine corsa. E forse cambierai qualcosa, poco però.
E le parole, migliaia di parole mai dette, che rimangono lì ferme e che,
quando ricordi, rimpiangi di averle solo pensate senza farle uscire fuori.
Sguardi che si incrociano
per strada, casualmente, e dietro lo sguardo un fiume di parole che si
vorrebbero dire solo perché si intravede empatia fra sconosciuti, lunghe passeggiate in riva al
mare, in due, in silenzio, senza parlare, perché le parole stanno dentro e non
sanno uscire ma ci sono, urlano, sibilano, si incrociano, volteggiano. E poi la
pagina bianca, il dramma di chi vuole scrivere e non sa iniziare perché quel
bianco da riempire spaventa. Un giorno un bravissimo pittore di Gavi Ligure mi
disse che lui no, non faceva grandi formati “perché la tela bianca grande mi spaventa
e mi blocca”. Lo stesso accade per chi scrive, la maledetta pagina bianca che
poi come per magia si riempie di simboli, lettere, punti, virgole, fluisce, si
dipana e alla fine stai lì, la guardi ed è quello il momento in cui “la parola
comincia a splendere”.
Imbonitori, affabulatori, guappi, poeti, commercianti di vacche, scrittori
raffinati… Tutti urlano e decantano parole che planano leggere o pesanti,
pensate, pesate, ripensate. A volte inutili.
Parole di amanti e parole di governanti, parole di bimbi che non misurano
le parole ma le usano così come le hanno imparate e vogliono comprendere. Le usano così come le hanno ascoltate dai “grandi”, senza necessariamente
comprenderne il significato, ma sapendo che hanno un senso. Così l’immagine del
“sole rotto” da una nube che sembra tagliarlo in due, detto da un bimbo può
fare sorridere, ripensato può essere poesia pura, alta. Il senso delle cose,
delle parole, dei simboli.
Parole nuove mai udite, neologismi li chiamano, quelli che inventano i
ragazzi e che poi diventano quotidiano, comuni, ovvie e scontate. Parole
antiche passate di moda ma che improvvisamente ti trovi davanti e ne scopri la
bellezza, la meraviglia.
Parole che si illuminano… Appunto.
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