Alcune persone danno una netta sensazione... come spiegare.. di essere invincibili. Ma quella seccatura finale poi arriva. Marcello Pantani se ne sta andando, ma prima della morfina, ha chiesto alla figlia Carla di salutare e mandare un bacio ai suoi "compagni di Bari". Questo ci commuove. Da questa bacheca ti auguro sogni belli, Marcello.
Queste parole mi sono arrivate tramite facebook, come una stilettata. Purtroppo arrivano momenti in cui fai i conti con te stesso, con la vita e il fine vita, con la malattia. E ti ricordi. Così Marcello ha affidato alla figlia quelle parole che ricordano la sua militanza in Lotta Continua a Bari.
Con Marcello ci siamo visti una sola volta, poi ci siamo sentiti spesso per mail e per telefono, il suo aiuto nel ricordare Elio e il suo periodo pugliese è stato essenziale per il libro.
Ripropongo qui il suo intervento nel mio libro "Elio" e lo ringrazio con commozione.
I tempi della "militanza a tempo pieno" erano quelli in cui si condivideva tutto, le miserie, il mangiare una volta ogni tanto, la mancanza di soldi sempre, i volantinaggi davanti alle fabbriche.
Poi le strade si sono divise, Elio se ne è andato a morire in Salvador, Marcello a Pisa caparbiamente a credere di poter cambiare lo stato delle cose.
Così è andata. Grazie.
Ricordando Elio
1971,
settembre avanzato. Al Cep, Quartiere di Edilizia Popolare nel territorio del
comune di Modugno, alle porte di Bari, un numeroso gruppo di famiglie con
pesanti problemi abitativi occupava da alcuni giorni un ospedale costruito da
anni e da sempre inutilizzato.
Mentre
Lotta Continua stava organizzando da tre, quattro mesi la sua presenza a Bari e
provincia (Altamura, Molfetta, Mola, Turi, Conversano), i suoi militanti erano
già attivi nelle situazioni operaie e di quartiere, in quelle delle scuole
superiori e verso le caserme dove erano presenti nuclei organizzati di soldati
democratici, detti “Proletari in Divisa”, P.i.D. (una sera, un compagno e una
compagna, che diffondevano un volantino all’uscita da una caserma, vennero
arrestati per istigazione a disobbedire alle leggi e si fecero alcuni giorni di
carcere), con interventi e qualche simpatizzante nelle fabbriche della zona
industriale, nel tessuto sociale della città vecchia dove aveva aperto la sua
sede, nell’iniziativa rivolta a isolare i fascisti e a contrastarli nelle loro
aggressioni pressoché quotidiane, condotte da squadracce all’uscita delle
scuole contro studenti conosciuti per il loro impegno politico nel movimento e
contro compagni isolati sorpresi in giro per la città.
Al
Cep tra gli occupanti c’era la famiglia di un giovane proletario che si era
avvicinato a Lotta Continua fin dall’inizio, interessato in particolare
all’impegno antifascista.
Fu
lui a coinvolgere e organizzare i compagni e le compagne di Lotta Continua nella
vicenda del Cep, che raggiunsero un pomeriggio in un bel gruppo, mentre
poliziotti e carabinieri erano attrezzati per sgomberare gli occupanti e
chiunque si trovasse a presidiare l’occupazione.
Tra
loro c’era anche Aurelio Ferraris, detto Elio. Da qualche settimana aveva
lasciato il suo lavoro di geometra responsabile della costruzione di una strada
provinciale nella zona di Altamura, dove aveva vissuto per circa un anno, e si
era trasferito a Bari, in casa mia, per «capire le modalità di
svolgimento del lavoro politico di Lotta Continua a livello di massa», come
diceva lui. Ma aveva anche l’idea di spostarsi a Molfetta, dove compagne e
compagni sarebbero stati felici di accoglierlo.
C’era
stato circa due mesi prima il convegno nazionale di Lotta Continua, ciò che aveva affrontato, insieme
ad altri temi, tra cui quello allora centrale delle lotte operaie, la
situazione meridionale, collocandola in modo deciso nel progetto politico di
LC, e che s’era tenuto a Bologna a fine luglio al palazzetto dello sport.
Ricordo
che ne era stato tenuto fuori un giornalista arrogantello, tal Gianpaolo Pansa, assurto 30 anni dopo agli
onori della falsificazione della storia della Resistenza col suo “capolavoro”
di menzogne, dal titolo “Il sangue dei vinti”, allora semplicemente desideroso
di inventarsi scoop sui presunti “figli di papà, rampolli della borghesia, che
giocano a fare i rivoluzionari, ecc.”.
Cliché,
questo, adottato da tanti giornalisti, appartenenti a tutte le testate, di
destra o di sinistra che fossero, tanto per informare correttamente dei
sommovimenti che da un pezzo stavano accadendo in questo Paese tra giovani,
studenti, proletari in genere, operai, donne, detenuti, soldati di leva, matti
di manicomio, ecc.!
Cliché,
che non è stato mai messo tra i ferri vecchi, tant’è vero che nell’ottobre
1980, durante i “35 giorni” della Fiat, me lo ritrovai affibbiato addosso dal
plurivenerato Giorgio Bocca sulle colonne di “Repubblica”, che se la prese con
me perché una sera, davanti alla porta di Mirafiori dov’era il “quartier
generale della lotta”, sotto il poster gigantesco del testone di Marx, osai
esprimere idee forti sulle ragioni degli operai in uno dei tanti capannelli di
discussione (presente anche l’ineffabile Fassino, attuale sindaco di Torino e all’epoca
responsabile provinciale della commissione lavoro del PCI, che s’incazzava di
brutto con gli operai che dissentivano da lui, fino a farci preoccupare tutti
quanti per lo spessore che raggiungevano le vene del suo collo durante la
foga).
E
se la prese, il Bocca, anche con la mia compagna, anche lei presente,
descrivendola nell’articolo come una “borghese elegantemente vestita, a mo’ di
sessantottina”. O giù di lì, cito a memoria.
Ritornando
al convegno di Bologna, ricordo che, quando stava per finire, incontrai Elio,
che non sapevo ci fosse venuto. Stava per ritornare in Puglia, ma quando gli
proposi di passare un giorno a casa dei miei a Cecina, dove avevo intenzione di
recarmi per stare un attimo con loro e da dove potevamo andare giù insieme, accettò
volentieri.
Così
mi mise a parte dei suoi progetti politici e mi coinvolse nella sua decisione definitiva
di lasciare Altamura, da lui presa già da qualche mese, mi disse. Voleva
finirla con un lavoro che lo stringeva in un’assurda contraddizione tra la sua
collocazione politica e il ruolo di controllo e di comando da lui esercitato
sugli operai del cantiere.
Una
decisione che, soprattutto, diventava per lui ineludibile, una volta che si era
convinto che in Puglia avrebbe potuto essere utile all’esistenza e al
rafforzamento di Lotta Continua, solo se avesse potuto impegnarsi politicamente
“a tempo pieno”, trovando da arrangiarsi economicamente con un lavoro in cui
spendere solo qualche ora al giorno.
Da
qui, la scelta di spostarsi verso la fascia costiera barese, con una università
importante, moltissime scuole medie superiori, una zona, tra Bari e Modugno, a
grande intensità industriale, numerose caserme dell’esercito, una sfilza di
centri tra Monopoli e Barletta, passando per Bari, che mettevano insieme quasi
800mila abitanti, a cui ne andavano sommati altri 600-700mila, stanziati nella
fascia interna, a distanza ragionevole dalla costa, e comunque gravitanti sul
capoluogo, tra Gioia del Colle e Canosa.
Niente
a che vedere con quanto si potesse abbracciare da Altamura, centro per certi
versi isolato, sulla Murgia barese.
Se
ne era già discusso, in occasione di miei viaggi ad Altamura, ma soprattutto
durante gli spostamenti (interminabili, visti i mezzi di trasporto di
quindicesima mano di cui eravamo dotati) che avevamo fatto insieme per recarci
in Calabria ad alcune riunioni di coordinamento delle sedi, all’epoca non
numerose, di Lotta Continua del Sud: a Vibo Valentia, a Castrovillari, a
Cosenza.
Da
Cecina viaggiammo insieme fino a Bari, dove Elio mi portò fin sotto casa e
ripartì per Altamura, che lasciò definitivamente qualche settimana dopo, per
sistemarsi in una stanza libera dell’appartamento pressoché privo di
arredamento in cui vivevo nel quartiere Muratiano.
E
mi fece un bel regalo: la foto dell’uscita generale delle compagne e dei
compagni dal palazzetto dello sport di Bologna a convegno concluso, in mezzo ai
quali risaltava mio padre col suo metro e novanta, in canottiera, e la camicia
sul braccio: doveva fare caldo, anche in quel luglio lontano, anno 1971.
Una
foto che adesso conserva mia figlia e in cui mio figlio da piccolo guardava
ammirato e contento quel nonno grande e alto.
Una
foto ben fatta, perché Elio era anche fotografo.
A
Solero, piccolo ventr a pochi Km. da Alessandria, sull'onda delle lotte studentesche e operaie esplose a Torino nel '68 e '69 e della risonanza che avevano avuto in tutta la provincia piemontese, aveva smesso di simpatizzare
per il partito liberale e si era avvicinato a Lotta Continua, di cui andò poi a
divulgare il messaggio (anche portando con sé alcune copie dell’omonimo
periodico, uscito come primo numero nell’autunno ‘69) quando si trasferì ad
Altamura.
E
qui si legò agli studenti universitari e ai giovani operai della GiOC (Gioventù
Operaia Cristiana) che frequentavano il Centro di servizi culturali facente
capo alla Cassa per il Mezzogiorno e presente ad Altamura come in molte altre
località del Sud: un’occasione per ritrovarsi e per discutere, in un’epoca in
cui era intenso il fermento politico e culturale e l’aggregazione ne era una
conseguenza coerente col bisogno di prendere l’iniziativa.
Ad
Altamura, all’interno del Centro si costituì, grazie di certo anche a Elio, un
gruppo di Lotta Continua, tra cui alcuni universitari, alcuni
operai metalmeccanici dipendenti di una fabbrica di Bari e un giovane
coltivatore diretto, Vito, quello che fece conoscere il giornale di Lotta Continua
agli studenti di lettere e filosofia e di giurisprudenza dell’università di
Bari, dove andava a diffonderlo, dopo che Elio aveva provveduto a farselo
spedire da Milano, città in cui veniva stampato.
Vito, che poi lasciò Altamura , per andare a costruire Lotta Continua
a Matera con Antonio, studente di Bisceglie proveniente dall’università di
Pavia, impegnandosi in particolare nell’intervento politico rivolto agli operai
del polo chimico di Pisticci, rappresentato dalla fabbrica dell’ENI.
Io
ero a Bari da maggio-giugno ’71, proveniente da circa un anno di esperienza
politica a Taranto, sempre in Lotta Continua, dove avevo militato fin dalla sua
“costituzione” (autunno ’69), prima a Rosignano Solvay, Cecina e Piombino e poi
a Livorno, e dopo essermela fatta tra il ’66 e il ’69 con Il Potere Operaio
toscano, fin dagli incontri preparatori sia dell’organizzazione che del suo omonimo
giornale, il cui primo numero era uscito nel febbraio ’67.
Non
ero un funzionario di partito, ma un militante che aveva deciso di fare il
“randagio”, felice ma non troppo di esserlo (mia moglie, una parigina, non aveva retto granchè la cosa e mi aveva piantato)
Dopo
che ero rimasto solo, quando alcuni compagni di LC, i quali in qualche modo ne
dirigevano la baracca, mi chiesero di trasferirmi da Livorno a Taranto, quella
del IV Centro siderurgico Italsider, il più grande in Europa (20mila dipendenti diretti e 20mila circa dipendento di ditte appaltatrici, in parte manutenzione, in parte prosecuzione dell'installazione degli impianti), con l’obiettivo della saldatura del perimetro della presenza
di LC nel ciclo dell’acciaio in Italia (dopo Piombino, Bagnoli e Genova,
finalmente il mostro di Taranto), accettai e in pieno agosto mi ci trasferii,
senza un indirizzo di riferimento e coi pochi soldi che mi erano rimasti
dall’ultima retribuzione percepita come insegnante di italiano, storia e
geografia nei corsi di scuola media serale a Cecina.
A
Taranto e poi a Bari non vivevo di stipendio per funzionari, ma di piccole
“rimesse regolari” da parte di mio padre, operaio, e mia madre, ex-operaia.
Inoltre,
ricevevo aiuti saltuari ma di grande significato da parte di alcuni compagni di
Cecina; di un’amica e compagna di Piombino; di un paio di intellettuali
livornesi, che avevo avuto come professori di storia e filosofia parecchi anni
prima, ai tempi del liceo classico a Piombino; di un paio di amiche e compagne
di Napoli: tutte persone che mai dimenticherò. Vivevo con “tre soldi” al mese,
senz’acqua calda né riscaldamento, mi nutrivo poco più di una volta al giorno,
indossavo indumenti puliti, scarpe comprese, avevo capelli lunghi, mai sporchi.
Magro, ma non secco, in pace con me stesso, tutto sommato felice di essere
“randagio”.
Ma
per quanto ancora sarebbe durato un vivere che teneva in sintonia tra loro
tutti gli aspetti del mio essere e del mio esistere e li coniugava con
naturalezza a un impegno politico totalmente assorbente, al punto da rendere
impossibile districarsi tra il fare “lavoro politico” e l’agire secondo i più
comuni e ordinari bisogni umani?
Per
quanto ancora sarebbe durato un vivere che faceva dell’impegno politico -ben
oltre una ragione fondamentale di vita- un modo stesso di vivere, uno stile di
vita, un qualcosa che non era di certo una uniforme da dismettere quando
arrivavo a casa, ma una energia che non smetteva mai di agire in me, che agiva
in ogni mio istante?
Com’era
praticamente per la totalità dei compagni e delle compagne, com’era per Elio,
del quale, mettendo finalmente in un canto i toni seriosi di pocanzi, voglio
ricordare i baffi tra il biondo e il rosso, tanto curati che al cospetto i miei
parevano appartenenti a protagonista di film western, la persona curatissima,
la silhouette mingherlina e signorile.
Solo
qualche tempo dopo la nascita di mia figlia, feci presente a Lotta Continua
che, forse, avevo bisogno di essere aiutato: cosa che avvenne, non regolarmente
magari, ma di grande utilità lo stesso.
Ritornando
al Cep, le forze dell’ordine non tardarono granché a passare all’azione di
sgombero, naturalmente senza alcun preavviso, cominciando a manganellare chi
capitava a tiro, per poi fermarlo e caricarlo sui cellulari. Impossibile fare
una resistenza di qualche significato, disorganizzati come eravamo e un po’
pesci fuor d’acqua, visto che eravamo arrivati all’occupazione più come
osservatori che altro. Elio stava per essere agguantato da un paio di
“celerini”, cercò di divincolarsi ma non ci riuscì, finché mi intromisi io con due altri compagni: bloccammo i
poliziotti con una breve colluttazione, liberammo Elio e riuscimmo a sparire.
Andò
peggio quando, 8-9 mesi dopo, a Molfetta, dove si era stabilito una volta
terminata la breve esperienza barese, Elio venne arrestato insieme a un altro
compagno durante la contestazione messa in scena dai compagni contro un comizio
del MSI, come contributo locale alla campagna nazionale “i fascisti non devono
parlare”, lanciata da Lotta Continua per le elezioni politiche anticipate del
1972.
Lì,
la polizia non andò per il sottile e i due compagni finirono per alcuni giorni
in carcere a Trani, finché il “nostro” avvocato barese riuscì a farli tornare
in libertà, anche se “provvisoria”, come di dice.
Con
Elio e le compagne e i compagni di Molfetta, come del resto con quelli
disseminati in Puglia (non solo in provincia di Bari, dove alle sedi iniziali si aggiunsero quelle di Bisceglie, Barlettae Gravina, ma anche a Montesantangelo sul Gargano e a Taranto, Brindisi, Lecce e in alcuni centri di queste province) e in Basilicata (in particolare a Matera), mi vedevo molto spesso, visto
che avevo una sorta di compito di “coordinatore regionale”, che svolgevo un po’
a tempo perso, in verità, dato che il grosso del mio impegno era a Bari.
Ma
con Elio, e con compagne e compagni venuti da altre regioni a praticare la loro
militanza politica, il rapporto si caratterizzò molto sul piano personale,
accomunati come eravamo da un’esperienza che ci aveva visti partire da città
dove avevamo il nostro inserimento, interrompere relazioni con amici e amiche,
con le nostre famiglie lasciate là a preoccuparsi per le nostre sorti, con
qualche storia d’amore rimasta aperta sulla carta ma destinata a estinguersi
per la lontananza e per l’insorgere di nuove vicende amorose.
Come
la storia tra Elio e la sua compagna di Solero, venuta nel settembre 1971 a
Bari (naturalmente a casa mia!) per capire con lui cosa fare del loro rapporto
e ripartita con un pugno di polvere.
Parlammo
per due notti di queste cose, Elio e io a Molfetta, era il marzo 1972, quando
fui costretto a vivere in casa sua per due giorni (il tempo di uscire dalla
“flagranza di reato”), dopo avere lasciato Bari in fretta e furia in seguito a
un comizio sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, in cui affrontai anche
l’argomento della “strategia della tensione” e delle stragi, chiamando in causa
pesantemente la DC, il MSI, lo Stato e i suoi corpi armati e “separati”. Al
punto che due compagni sul palco accanto a me, non appena pronunciata l’ultima
parola, mi presero energicamente sotto braccio, mi portarono giù dal palco,
chiamarono altri compagni a proteggermi dai poliziotti della “squadra politica”
corsi a fermarmi e mi fecero scappare. Dove? Alla stazione e da lì a Molfetta,
da Elio, a trovare il tempo di leggere, riflettere, immaginarci il futuro,
ricordare.
Ricordo
serate trascorse nella sede di Molfetta con Elio e con qualche compagno locale,
di certo Pasquale, a ciclostilare volantini per le fabbriche o le scuole
baresi, quando il ciclostile di Lotta Continua di Bari era in riparazione o
quando non avevamo soldi per comprare carta e inchiostro.
Ricordo
le venute di Elio a Bari, la sera, a casa mia, e le discussioni su problemi di
prospettiva politica, di progetto politico di Lotta Continua, di rapporti col
PCI e soprattutto con la sua base, a proposito della questione elettorale e
governativa, o di rapporti coi sindacati e i consigli di fabbrica, sulla
democrazia sindacale.
Ricordo
Elio alle prese coi suoi impegni familiari relativi non tanto alla relazione
con la sua compagna, quanto a quella coi figli di lei (un bambino e una
bambina), nati dal suo precedente matrimonio.
Quando
nel 1974 diventai padre, mi resi conto che il rapporto con mia figlia Carla era
di un’intensità e di una complessità non paragonabili a quelle raccontate da
Elio nel rapporto coi figli della sua compagna, ma questo non sminuì affatto la
mia sensazione di un Elio attento e premuroso verso quei bambini.
Con Elio non era facile, per me, parlare
di politica, anche se sempre o quasi sempre riuscivamo a toglierci dagli occhi
le bende delle diverse ideologie di provenienza (ideologie intese come visioni
preconcette e perciò false del reale) e a vedere crudamente la situazione e i
problemi, per cercare di capirne la portata ed elaborare i modi per
affrontarli. Avevamo formazioni e storie parecchio differenti.
Io,
di famiglia operaia e comunista di Cecina, formato dai ricorrenti racconti di
mio padre su episodi della Resistenza e delle lotte nella fabbrica chimica
Solvay dove lui lavorava ed era attivo sindacalmente (iscritto alla Cgil) e
politicamente (ma come “cane sciolto”, avendo sempre escluso di iscriversi al
PCI), studente di liceo classico in una città operaia come Piombino (mi ricordo
le cariche a freddo della Celere contro il comizio del 1° maggio del 1956) e
poi universitario con tutti gli esami sostenuti e la tesi di laurea in
giurisprudenza rinviata a tempi meno coinvolgenti degli anni ’60 e anche ‘70.
Lui,
di famiglia medio-borghese impegnata in un’attività di tipo artigianale,
studente di istituto tecnico, diplomato geometra e diventato capo-cantiere
trasfertista per lavori stradali dalle parti di Altamura.
Io,
giovane comunista da 14 a 18 anni, uscito dall’organizzazione giovanile del PCI
in dissenso sull’occupazione sovietica dell’Ungheria (novembre 1956), passato
per gli scontri durati tre giorni tra proletari e paracadutisti affiancati da
“celere” e “baschi neri” nell’aprile 1960 a Livorno e per l’antifascismo del
“luglio ’60”, poi rientrato nel PCI nel
1965 per esserne messo alla porta nel 1966 (erano i mesi dell’XI congresso del
partito) e partecipare, senza soluzione di continuità, alla costruzione, prima,
di Il Potere Operaio toscano e, dopo, di Lotta Continua.
Lui,
di simpatie politiche liberali, messe in crisi, già in pieno “sessantotto”,
dalla voglia di capire quel che succedeva, gli studenti, gli operai e le loro
ragioni.
Lui,
più giovane di alcuni anni rispetto a me, che mi sono sempre trovato a essere
uno dei più “vecchi” in tutta la mia esperienza di “sinistra
extraparlamentare”.
Due
esperienze vissute in mondi non proprio vicini, dei quali ci portavamo dietro e
dentro, ben oltre quanto ne fossimo consapevoli, peculiarità e differenze anche
profonde, che davano luogo continuamente a modi divergenti di vedere le cose, a
discussioni spesso poco costruttive e tutt’altro che pacate, a proposte di
iniziative e a prese di posizione che pareva venissero non tanto da due
militanti della stessa organizzazione, ma da due organizzazioni diverse, a
impostazioni non proprio omogenee nel mettere in pratica l’azione politica o
nel verificarne l’andamento e i risultati o nel doverne fare una qualche
rettifica.
Nonostante
tutte queste diversità, che del resto non erano circoscritte alle nostre due
persone, ma attraversavano tutto il microcosmo di Lotta Continua, non solo a
Bari, ma in tutta la Puglia e in tutt’Italia, la convivenza tra diversi fu
normalmente possibile, anzi molto utile e positiva, perché dal confronto tra i
poli “opposti” e tra loro quelli “intermedi” scaturivano quasi sempre
arricchimenti di conoscenze e iniziative politiche e sociali non affidate
all’impulso del momento, ma elaborate nei dettagli e nella prefigurazione delle
prospettive e degli esiti.
Questo,
almeno finché il movimento, di cui Lotta Continua era parte importante, visse
(portando con sé grandi contenuti e perseguendo grandi obiettivi) la sua fase
ascendente di partecipazione di massa, pure se tragicamente percorsa dalla
perdita di vite umane, sia a opera del terrorismo fascista-statuale (stragi di
piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969; di piazza della Loggia a Brescia
del 28 maggio 1974; del treno Italicus del 4 agosto 1974 all’interno della
galleria ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Firenze-Bologna),
che degli attentati fascisti, che della repressione poliziesca.
Nemmeno
a Bari e provincia la situazione era idilliaca: gruppi di fascisti (finché non
ci si organizzò sistematicamente per renderli impotenti e sgominarli)
aggredivano spesso, anche in pieno giorno, i compagni, arrivando nei primissimi
anni ’70 fino al grave ferimento con arma da fuoco (al collo e alla spalla) a
Mola di Bari di Paolo, giovanissimo studente di Lotta Continua, mentre stava
ciclostilando in sede verso mezzanotte, e all’accoltellamento a Bari di
Ruggiero, giovane compagno, anche lui di Lotta Continua.
Ferimento
e accoltellamento, diventati oggetto di vuote istruttorie giudiziarie e rimasti
impuniti, a onore dell’efficienza e della determinazione “democratica” della
polizia giudiziaria e dei magistrati baresi che ebbero assegnati quei casi, e
che in seguito si rivelarono molto più efficienti nell’arresto e detenzione di
compagni, come Pino di Lotta Continua e Nino del Circolo Lenin di Puglia!
I
fascisti, costretti a nascondersi nelle “fogne”, tentarono, allora, di
infiltrarsi con loro camerati sconosciuti ai compagni nelle assemblee
studentesche all’università, per individuare i “comunisti” da colpire di notte
con agguati al momento del loro rientro a casa; di assaltare i compagni mentre
facevano attacchinaggio di manifesti; di incendiare le sedi di Lotta Continua.
Non
riuscirono a terrorizzarci, anzi, furono bersagliati da una risposta
quotidiana, organizzata, condotta da qualche decina di militanti di Lotta
Continua, che non colpì nel mucchio, se non raramente, ma mirò a obiettivi
precisi, che non potevano che essere i capi del mazzierato squadrista e le sedi
organizzative delle loro imprese vigliacche, compresa le sede centrale del MSI,
attaccata il 29 maggio 1974 con bottiglie incendiarie dai compagni che avevano
partecipato al corteo di protesta contro la strage fascista del giorno prima a
Brescia.
Tanta
tensione, ma convinzione delle proprie ragioni e determinazione nel portarle
avanti. Unità sostanziale di intenti e di modalità operative d’azione, grande
solidarietà all’interno dell’organizzazione di Lotta Continua, impegno generoso
da parte di tutti e tutte, giorno e notte, per far vivere quelle ragioni nelle
fabbriche, nelle scuole, nell’università, nei quartieri popolari, tra i
proletari in divisa delle numerose caserme cittadine, in tutta la città.
Elio,
che viveva meno direttamente questa situazione in quanto era impegnato a
Molfetta, non per questo non sviluppava le stesse tematiche coi compagni di
quella città, non per questo non condivideva le iniziative di Lotta Continua
barese. Anzi, la sede di Molfetta, grazie in particolare a lui, aveva un
rapporto strettissimo con la realtà politica di Bari e nei momenti di più
intensa attività i compagni di Molfetta non solo socializzavano nel loro
contesto le vicende baresi, ma davano anche fisicamente e materialmente un
contributo significativo al lavoro politico svolto a Bari.
Finché
non sopraggiunse il 1975, col suo carico di morti concentrate in tre giornate
maledette di metà aprile, quando il 16, a Milano, un fascista di Avanguardia nazionale uccise a colpi di
pistola, durante uno scontro tra fascisti e antifascisti, Claudio Varalli, 18
anni, studente (aderente al Movimento lavoratori per il socialismo);
il 17, ancora a Milano, un carabiniere, durante il successivo corteo
antifascista di protesta, travolse col camion lanciato contro i manifestanti
Giannino Zibecchi, 28 anni, studente/lavoratore (aderente al Coordinamento comitati antifascisti); sempre il 17, a Torino, una guardia giurata
uccise a colpi di pistola, durante un’occupazione di case, Tonino Micciché, 25
anni, operaio (aderente a Lotta Continua); il 18, a Firenze, un poliziotto in
borghese col volto coperto, uccise a colpi di pistola, durante una manifestazione
antifascista organizzata dall’ANPI, Rodolfo Boschi, operaio (aderente al Partito comunista italiano).
Una
strage istigata da un regime democristiano che sentiva messo in pericolo il suo
potere trentennale dall’incalzare delle lotte sociali e politiche, sul posto di
lavoro e nelle città, che dal 1968 stavano conducendo gli operai, altri
numerosi settori proletari, gli studenti, i soldati democratici, i detenuti, i
degenti nei manicomi, gli abitanti dei quartieri popolari, gli antifascisti.
Un’occasione
come un’altra, da sfruttare in modo forcaiolo dal regime democristiano per
dotarsi di strumenti liberticidi di controllo e di repressione dei movimenti.
Tant’è vero che venne approvata in fretta e furia la cosiddetta legge Reale,
che prevedeva il divieto di partecipazione alle manifestazioni con bandiere
sostenute da aste tradizionali, perché ritenute “armi improprie”, e di uso di
indumenti che impedissero la riconoscibilità di chi li indossava, nonché
l’avocazione, da parte della procura generale, dei procedimenti riguardanti
notizie di reato relative ad agenti: una sorta di “commissariamento” di vicende
giudiziarie, che avrebbero potuto nuocere al braccio armato del potere
esecutivo.
Una
legge, cui anche il PCI, sempre più dimentico della storia di abusi e di
ferocie del potere repressivo che aveva imperversato ed imperversava in Italia
dal dopoguerra, non poteva non garantire il suo voto favorevole (unica
eccezione ufficiale, apertamente dichiarata nel dibattito al Senato, quella di
Umberto Terracini).
Di
questo risentì, in qualche misura, il dibattito in corso dentro Lotta Continua
sulle prospettive politiche che si sarebbero potute aprire col voto legislativo
del 1976, il quale, secondo LC, avrebbe segnato una pesante sconfitta della DC
e la possibilità di un governo delle sinistre, con cui la sinistra
rivoluzionaria avrebbe avuto interesse a stabilire un rapporto di
opposizione-collaborazione, in quanto governo sul quale i movimenti avrebbero
potuto esercitare condizionamenti significativi.
A
non molti compagni parve, giustamente, che questa prospettiva di “utilizzo” da
parte dei movimenti di un eventuale
governo delle sinistre risultasse decisamente smentita dal voto favorevole del
PSI e del PCI sulla legge Reale.
Elio
fu tra questi compagni.
Non
potendo, in questo ricordo, entrare nel merito della deriva che caratterizzò la
sinistra rivoluzionaria (in primo luogo Lotta Continua, anche per effetto
dell’insorgenza, da una parte, dell’opposizione, al suo interno particolarmente
esplosiva, dei compagni juniores al ruolo di dirigente di quelli seniorese
alla concezione e alla pratica della militanza e, dall’altra, del manifestarsi
radicale del femminismo come concezione della politica, della contraddizione
uomo/donna in generale e, nello specifico, in LC), vorrei solo dire che già
nella seconda metà del 1975, almeno in LC, alcuni nodi cominciarono a venire al
pettine, probabilmente riconducibili a una certa autoreferenzialità
nell’elaborazione, da parte del gruppo dirigente nazionale, della cosiddetta
“linea politica” e della sua trasmissione all’insieme dei militanti non come
qualcosa da passare al setaccio dell’intelligenza collettiva diffusa in tutti i
territori, ma come un approdo ormai definito e definitivo a cui, tutto sommato,
non restava, localmente, che adeguarsi, tutt’al più individuando le forme e i
percorsi per la sua messa in pratica. Con l’aggiunta che i gruppi dirigenti
locali poco facevano per interagire criticamente con quello nazionale,
comportandosi in linea di massima come dei semplici esecutori di ciò che
passava il “convento”.
Non
ci rimase per tutto il 1976 che girare a vuoto con parole d’ordine che si
ripetevano uguali a se stesse da anni (sia per la lotta operaia che per quella
sociale, sia per la lotta politica che per quella antifascista, con in più
l’ultima trovata del “PCI al governo” (tanto la nostra forza e quella dei
movimenti l’avrebbero inchiodato alle sue responsabilità!): il tutto dentro una
certa fuga dalla militanza di compagni e compagne, verso un’altra militanza o
verso il “privato”.
Le
elezioni politiche del giugno 1976 (col risultato per la coalizione
“rivoluzionaria” decisamente scoraggiante -1,5% dei voti validi-, con la DC che
tenne, col PSI che andò al suo minimo storico e col PCI che non fece l’exploit
delle amministrative dell’anno precedente) fecero il resto: scompaginamento di
ogni certezza (altro che “governo delle sinistre” e sinistra rivoluzionaria lì,
a fare in modo che non sgarrasse rispetto ai bisogni dei lavoratori e degli
studenti!) e perfino di ogni ipotesi; desiderio di abbandonare la nave senza
nemmeno tentare di capire se con essa, da attrezzare in modo decisamente nuovo,
fosse ancora possibile proseguire la navigazione e che tipo di navigazione e
verso quale porto.
In
Lotta Continua sorsero le “correnti” (spesso composte da compagni e compagne
che tra loro avevano davvero poco da spartire), spesso messe su non tanto per
il bisogno di discutere e capire, quanto per quello di trovare capri espiatori
con cui arrivare alla resa dei conti o da indicare al pubblico ludibrio. E,
drammaticamente, chiusura assoluta nel proprio ghetto minoritario.
Ci
fu chi ne fece parte, come Elio.
E
chi se ne ritrasse, pensando che fosse più importante cercare di capire cosa
stesse succedendo tra i lavoratori delle fabbriche dove LC era presente, nei
quartieri dove avevamo sezioni, tra i “proletari in divisa”, tra gli studenti;
credendo che, piuttosto che fare ammucchiate per “vincere” contro la corrente
“avversa”, fosse necessario riflettere anche in solitudine o con altre compagne
e compagni (i quali, più che di fare correnti per vincere, sentivano l’esigenza
di capire) per tenere in piedi qualcosa che potesse almeno somigliare alla
continuazione di un rapporto di massa.
Qualche
tempo prima del congresso nazionale di Rimini (che si tenne a fine ottobre 1976
e che non prese -contrariamente a quanto
racconta chi è interessato a non assumersi responsabilità rispetto alla fine di
LC- nessuna decisione di scioglimento), dovetti, per motivi di famiglia,
lasciare Bari per fare ritorno a Livorno, dove non trovai una situazione
migliore di quella barese. Anzi!
Da
Torino, poi, dove trovai lavoro, mantenni qualche contatto con compagne e
compagni di Bari, che da lì a un anno dopo, sia quelle e quelli che erano
usciti da LC, che quelle e quelli che erano rimasti dentro ciò che ne restava,
si impegnarono nelle lotte degli studenti universitari fuori-sede e vissero
giornate di dolore, di rabbia e di lotta antifascista in seguito all’uccisione
da parte di assassini fascisti del giovane Benedetto Petrone, compagno della
FGCI di Bari Vecchia, molto vicino a Lotta Continua.
Di
Elio non seppi più niente.
Solo
più tardi seppi di lui da un compagno, il quale mi raccontò di un suo progetto
di impegno sindacale nella Uil, che non sapeva se si fosse mai realizzato, e
del suo desiderio di trasferirsi in America Latina come reporter
internazionale, se ricordo bene.
Della sua morte violenta in
Salvador, dove si era unito ai guerriglieri del FLMN che combattevano la feroce
dittatura di José Napoleon Duarte,
sono venuto a conoscenza parecchio dopo, quando venni anche a sapere che il
Nicaragua e il Salvador erano stati le ultime tappe del suo peregrinare in vari
paesi latinoamericani.
Poi,
quand’erano già passati tanti anni, fui raggiunto da una telefonata di un vecchio
compagno pugliese residente a Bologna (era riuscito ad avere il mio numero di
telefono, dopo averlo cercato per mari e per monti), il quale mi diceva che
voleva vedermi per consegnarmi il passaporto di Elio (non ricordo come lo abbia
ricevuto) proveniente (se ricordo bene) dal Nicaragua, immaginando che avrei
potuto farlo avere alla sua famiglia tramite la madre di mia figlia, che
risiedeva ad Alessandria.
Di
lì a poco ci vedemmo a Bologna, dove mi ero recato per partecipare a un corso
di formazione sull’orientamento scolastico e professionale. Ci abbracciammo
commossi: per il fatto che era passata una vita dall’epoca di Lotta Continua;
per il fatto che l’occasione era dovuta alla “dimenticanza” di un compagno
sempre in giro, anche per lande turbolente, che aveva lasciato il passaporto di
là dall’oceano, in Nicaragua (come mi sembra di ricordare); per il fatto che
questo compagno stavolta non avrebbe più fatto ritorno fra noi …
Addio Elio.
(Pisa, 16 luglio
2011)
Dopo l'uscita del libro, quando gli inviai una copia, mi mandò queste righe, la commozione era evidentmente grande.
... non saprei dire meglio del libro che tu hai scritto insieme a Elio, di quanto non abbia già detto Maurizio Nocera.
Un libro bello e drammatico, terribile, che inesorabilmente mi ha trascinato dentro la tragedia delle scelte di vita di Elio e delle vicende che hanno contraddistinto la sua brevissima esistenza, fino al suo peregrinare, spietato verso di sé, in America latina.
Una lettura, quella che ho fatto del tuo (del vostro) libro, che ha rappresentato per me fin dall’inizio, con la lettera datata Solero 17 novembre 1978, una sofferenza intensa, che è andata crescendo man mano che andavo avanti, finché ho dovuto fermarmi per la forte emotività che mi ha assalito nella parte finale, quando sono comparse una dietro l’altra tutte le lettere di Elio.
Lettere che poi ho letto e riletto.
Un grande abbraccio
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