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La lotta al caporalato è ormai estesa su tutto il territorio
nazionale. Da Nardò a Pachino, e più a nord, fino nell’Emilia e per la
vendemmia del Moscato d’Asti in Piemonte. Ovunque in Italia si utilizzano
persone come fossero oggetti, macchinari. Il reclutamento di mano d’opera
scavalca le leggi e gli ordinamenti e si appalta direttamente ai caporali che
forniscono uomini e donne, non solo stranieri ma anche italiani, stabiliscono i
prezzi, lucrano sulla “mediazione” e sugli stessi lavoratori imponendo loro un
prezzo per il trasporto, uno per i panini, uno per l’acqua da bere. Poi, finita la stagione delle angurie a
Nardò, le deportano in Sicilia per i pomodori, in autunno in Piemonte per la
vendemmia, con un giro senza fine. E i datori di lavoro veri, i proprietari dei
campi, sono italiani, votano in Italia, si lamentano per le tasse italiane,
chiedono rimborsi al governo e spesso sono esenti da ticket per reddito basso.
E sono pugliesi, siciliani, calabresi, piemontesi dell’astigiano
e dell’alessandrino.
E pagano caporali che girano molto spesso armati, che
minacciano chi vuole rendersi conto.
Certo, stupiscono gli atteggiamenti di chi dovrebbe
controllare, a volte è talmente tutto alla luce del sole che non ci si rende
conto come mai, con controlli serrati e magari verifiche catastali, non si
possa giungere all’identificazione dei proprietari dei campi in cui lavorano
questi sfruttati.
Tutto pare lasciato al “buon cuore” di sindacalisti attenti
che vanno nei campi, che parlano con i lavoratori schiavizzati, che provano ad
aiutarli nel rivendicare diritti anche minimi. Spesso mal visti non solo dai
caporali, ma anche da taluni amministratori comunali che hanno come stella
cometa il detto “da noi la mafia non esiste”, negando così le evidenze, negando
che c’è mafia e mafia, che ci sono associazioni propriamente mafiose ed altre
che delle mafie assumono i comportamenti pur non essendolo dal punto di vista
strettamente giuridico.
E c isono amministrazioni comunali, Nardò giusto per citarne
una, che rifiutano sdegnosamente di costituirsi parte civile in un processo che
vede alcuni suoi cittadini accusati per l’infamante reato di “riduzione in
schiavitù”. Un tempo si diceva “pecunia non olet” ora vien da pensare che
neppure i voti puzzano.
Così oggi, anche se con voluto ritardo, esprimo tutta la mia
solidarietà con la sindacalista leccese che sempre si è occupata di lotta al
caporalato. Perché ha ricevuto, tramite whattsapp la foto di un ratto
impiccato. Chiaro ammonimento per chi chiede legalità e diritti elementari.
Il ritardo nell’esprimere la solidarietà è perché se ne
riparli, per non far cadere sotto silenzio la vicenda. Perché l’ignobile
episodio non faccia la fine della altre minacce ricevute dalla stessa
sindacalista in passato. Occorre ricordare, la memoria è preziosa.
La CGIL si è espressa con le parole della
segretaria Valentina Fragassi: “Da tempo abbiamo intrapreso, nel nostro
territorio, una lotta in luoghi di lavoro governati da un sistema diffuso di
illegalità e sfruttamento. Siamo coscienti che il nostro intervento stia
seriamente infastidendo chi lucra sulla pelle di lavoratori e lavoratrici
deboli e ricattabili. Una consapevolezza che ci convince ad andare avanti con
sempre più determinazione. La strada per i diritti non è mai stata facile, ma
non faremo un passo indietro.” E il fatto è stato denunciato alle autorità
competenti, tuttavia l’impegno del sindacato, pur indispensabile, necessita
della solidarietà di quanti credono in un mondo diverso, espressa in qualunque
modo si voglia e si possa fare. Soprattutto con la vigilanza civile e la
denuncia delle storture che si vedono.
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