Fino al secondo dopoguerra, più o meno negli anni ’60 del
novecento, il cappello per gli uomini era un capo d’abbigliamento quasi
d’obbligo. Poi piano piano divenne desueto. Sappiamo come le mode cambiano,
giacca e cravatta erano d’obbligo alle superiori, poi arrivarono i jeans e le t shirt, gli eskimo e via cambiando.
E la moda del cappello in particolare fece la fortuna della Borsalino
di Alessandria. Fondata da Giuseppe Borsalino nel 1857, il quale rilevò un
piccolo cappellificio, raggiunse presto una produzione di 750.000 cappelli
annui arrivando addirittura a due milioni negli anni precedenti la prima grande
guerra. 2.500 arrivarono ad essere gli operai ed operaie i impiegate,
famosissime ad Alessandria erano “le Borsaline” sulle quali si rumoreggiava in
città. Il feltro dei cappelli Borsalino era fatto di pelliccia di coniglio
opportunamente lavorata. Ricordo, negli anni ’60, il tipo che arrivava con il
suo tre ruote a raccogliere ferraglia e acquistare pelli nei paesi dove moltissimi avevano il pollaio e
le gabbia dei conigli che venivano sacrificati per le feste o in altri periodi.
E i dipendenti Borsalino lavoravano quelle pelli e, verso la
fine del fascismo, furono in prima fila negli scioperi del 1943 / 1944 quando
operai delle grandi città scesero nelle piazze rivendicando pace e
democrazia. Della Borsalino furono
anche molti resistenti che presero le armi contro il nazifascismo.
Impiegato dell’azienda, prima della clandestinità, fu Walter
Audisio, il Colonnello Valerio che ebbe il compito di prelevare e giustiziare
il duce in quel di Dongo.
"Le Borsaline" |
Nel dopoguerra la Borsalino conquistò i mercati americani e
inglesi, si espanse in tutto il mondo, divenne film con Alain Delon e Jean Paul
Belmondo nel 1970. Il mondo intero portava in testa pelli di coniglio del mio
paese, quasi una contaminazione culturale.
Poi seguì un declino lento a causa delle mode che richiedevano
meno cappelli, la produzione prosegue ancora, anche se l’antico stabilimento in
centro città è diventato museo del cappello e sede dell’università mentre il
simbolo più alto, la ciminiera, è stato abbattuto per far guadagnare qualche
costruttore edile.
E di cappelli si parla molto ultimamente, pare un vezzo, ma i
politici amano citarli spesso:
Non andremo da D’Alema “con il
cappello in mano” Vendola
al congresso fondativo di S.I.
Non andremo in Europa “con il
cappello in mano” Renzi
Renzi va dalla Merkel “con il
cappello in mano” Salvini
Abbonati, non abbiamo “il cappello in
mano” Il
Fatto Quotidiano
Insomma il cappello in mano sta diventando un tormentone
utilizzato per significare, ovviamente, l’elemosinare qualche monetina o
prebenda. Nessuno vuole andare da nessun altro “con il cappello in mano”,
neppure in segno di cortesia, come si usava un tempo.
Leghista DOC |
Al massimo lo si può metaforicamente sollevare per un breve
saluto o citarlo semplicemente complimentandosi con qualcuno e sussurrando in
francese “chapeau”.
E ci sono ancora personaggi che indossano orgogliosi strambi
copricapi, convinti di essere
affascinanti, lo fanno in pubbliche adunate. Poi ci sono gli
anziani, che in inverno guai ad uscire senza il capo coperto “perché non
bisogna prendere freddo”.
In estate si vedono, e qui Borsalino non c’entra, i panama,
bianchi, apparentemente freschi, simili ai sombreri che riparano dal sole i
messicani durante la pennichella, quella che a Napoli si chiama controra.
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