Il
neo dottor Simone de Luca si è da poco
laureato in Scienze della Comunicazione con un’interessante tesi in Storia
Contemporanea: Noi, stranieri due volte –
L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra.
Una migrazione,
come dice nell’introduzione, che “[…]risulta
quella meno trattata nella ricerca storiografica sull'emigrazione italiana.
Andreina De Clementi attribuisce questa minore attenzione al fatto che la
grande ondata migratoria del secondo dopoguerra, durata fino agli anni '70 del
secolo scorso, risulti schiacciata fra la prima grande migrazione della prima
metà del '900 e l'inizio dei fenomeni di immigrazione che si sono presto
manifestati come epocali[…]”
D’altra
parte, come si evidenzia sempre nell’introduzione, l’attenzione verso il tema
emigrazione è andato scemando dagli anni ’70 a gli anni ’90 del 900. Il
dibattito è tornato prepotentemente attuale dai primi anni ’90 con l’arrivo di
immigrati prima albanesi e via via fino ai giorni nostri, accendendo luci forti
su temi quali “accoglienza, xenofobia e integrazione". Salento come terra
di emigranti prima, di immigrazione poi. Ed oggi ancora una volta terra dalla
quale debbono andarsene moltissimi giovani in cerca di lavoro e di una vita,
oggi come allora, dignitosa.
Ne
abbiamo parlato con il dottor de Luca.
Partiamo dal titolo, perché
stranieri due
volte?
In
realtà il titolo è una citazione dell'attore e drammaturgo salentino Mario
Perrotta, che nel suo spettacolo Italiani
Cincali ha messo in scena la realtà dell'emigrazione. All'inzio del monologo
racconta che, da bambino, viaggiava spesso da Lecce a Bergamo per andare a
trovare il padre che lavorava lì, e di come, durante il viaggio, chiacchierava
con le famiglie di emigranti che viaggiavano su quella tratta. Erano diretti in
Belgio, in Svizzera o in Germania, e il bimbo Perrotta ascoltava i loro
racconti.
Molti
di essi, dice Perrotta, si definivano stranieri
due volte, ossia sentivano di non appartenere più alla comunità d'origine,
ma non si sentivano neppure totalmente integrati negli usi e costumi dei paesi
che li ospitavano come lavoratori.
Anche
io, negli anni successivi alla maturità scientifica, frequentando un corso di
specializzazione a Como, ho avuto modo di viaggiare spesso in treno sulla linea
Lecce - Milano, ascoltando talvolta le esperienze di emigrati salentini che
viaggiavano con me, nelle quali spesso si riscontravano esperienze di disagio
sociale e sacrificio.
Aspettando il treno |
Ho
fatto mia l'espressione stranieri due
volte come titolo della tesi per sottolineare l'aspetto del disagio sociale
che si è spesso accompagnato al fenomeno storico dell'emigrazione.
Nella tesi parli di
emigrazioni volontarie dettate da due motivi, vuoi spiegare?
L'emigrazione,
si legge nei libri, lo spostamento permanente di un individuo o di un gruppo di
persone
dal proprio luogo di origine ad un altro luogo. Tutti i migranti volontari,
ossia coloro che scelgono liberamente di recarsi in un altro paese, sono
indotti a questa decisione da fattori di spinta (push factors) e fattori di
attrazione (pull factors).
Le
migrazioni volontarie devono essere distinte tra quelle dettate dalla necessità
di fuggire da condizioni di estrema povertà e quelle nelle quali la scelta
dipende dal desiderio di migliorare le condizioni di vita normali. Appartengono
al primo caso le popolazioni rurali dei paesi poveri che si ammassano nelle
baraccopoli delle grandi città o i migranti provenienti dall'Africa che
sbarcano sulle coste siciliane. Al secondo caso appartengono, per esempio, le
migrazioni di ricercatori e professionisti verso le più prestigiose università
del mondo e nelle varie sedi di imprese
multinazionali
e organizzazioni internazionali.
L’italia, come scrivi, ha
subito due grandi ondate migratorie, la prima fra il 1870 e il 1920, la seconda
fra il 1946 e il 1973, lo Stato ha reagito nello stesso modo nei due periodi?
No,
lo Stato ha assunto due ruoli differenti se confrontiamo le due ondate
migratorie. Durante la prima è stato un osservatore neutrale, nel secondo
dopoguerra si è fatto promotore dell'emigrazione stessa, coordinando i flussi
migratori attraverso gli accordi bilaterali in primis con il Belgio,
successivamente anche con Svizzera e Germania.
Focalizziamo il secondo
periodo, ad un certo punto parli di “baratto” fra Stati nazionali
Si
può parlare di baratto in quanto in base agli accordi bilaterali veniva
stabilito, è emblematico il caso del Belgio, di inviare in Italia un
determinato quantitativo di carbone per ogni scaglione di lavoratori reclutati.
Come è noto, gli accordi bilaterali furono stipulati sia per far fronte alla
carenza di lavoro ma soprattutto per l'approvvigionamento di materie prime
necessarie alla ricostruzione post-bellica.
Il "manifesto rosa" |
Salentini residenti
all’estero, dai tuoi dati risulta che nel 1951 erano 2.106, nel 1961 19.578,
nel 1971 26.928 – una popolazione importante ed in costante aumento, perché si
emigrava dal Salento?
La
ragione è la stessa per cui si emigra oggi: la mancanza di lavoro, uno dei
fattori principali che dà dignità all'essere umano in quanto lo rende in grado
non solo di vivere ma di progettare il proprio futuro, cosa purtroppo oggi
molto difficile. Tornando all'ambito storiografico, possiamo dire che in quel
periodo si emigrava dal Salento a causa di un’economia già precaria ancora
incentrata sull'agricoltura e sul piccolo artigianato che la guerra aveva
ulteriormente messo a dura prova.
A partire grosso modo dal
1972 in avanti i rimpatri hanno eguagliato gli espatri, fino a sopravanzarli
Si,
nella seconda metà degli anni '70 il fenomeno dell'emigrazione, seppure ancora
presente, si ridimensiona notevolmente. Sono molti coloro che decidono di
ritornare in patria perché hanno raggiunto uno status economico migliore che
gli permetterà, in molti casi, di poter portare a termine il progetto che li
aveva indotti a partire, spesso la costruzione di una casa o l'apertura di una
piccola attività.
Citi la dura vita dei
migranti salentini ed italiani in Belgio, Germania e Svizzera soprattutto, ce
ne vuoi parlare?
Parlando
di questo argomento è molto facile cadere nel luogo comune e non è mia intenzione
farlo.
Dalle
testimonianze che ho avuto modo di leggere e ascoltare durante il lavoro di
tesi possiamo dire con certezza che sicuramente l'emigrante, almeno all'inizio,
non ha avuto vita facile. Ricordiamo che spesso i lavoratori che si recavano
all'estero in quel periodo erano semianalfabeti, non conoscevano che gli usi e
il dialetto del proprio paese natale. Si trovano improvvisamente catapultati in
una realtà completamente diversa per costumi, lingua, economia. Molto spesso
sono oggetto di diffidenza e di atteggiamenti xenofobi. Spesso le condizioni di
lavoro, almeno nei primi anni, li espongono ad alti rischi, pensiamo alla
tragedia di Marcinelle nel 1956.
Bar a Marcinelle |
Parliamo dei ritorni,
evidentemente questi hanno avuto un impatto sociale ed economico importante sul
Salento
Il
momento del ritorno è un punto focale della mia ricerca, la condizione di
straniero due volte è una condizione mentale legata molto spesso a questo
momento. Mi spiego meglio: L'emigrante che dal Salento si sposta in un altro
paese vive, al momento dell'arrivo, una prima condizione di estraniamento
dovuta all'impatto con la nuova realtà. Se e quando deciderà di ritornare
questo estraniamento si verificherà, in molti casi, in senso contrario. La
comunità nella quale ritorna è cambiata rispetto al momento della partenza, non
è più quella idealizzata durante la permanenza all'estero. Sebbene gli studi
scientifici su questo aspetto dell'emigrazione siano davvero esigui o comunque
non di carattere ufficiale, in base alle testimonianze di coloro che sono stati
costretti a emigrare, si può pensare che
in molti casi, il reinserimento potesse rivelarsi addirittura
traumatico. Da un punto di vista economico, anche se si tratta di un ambito
estraneo alla ricerca storiografica, e anche in questo caso spesso di fonti non
ufficiali, si potrebbe dedurre che molto spesso le rimesse degli emigranti
siano state usate per la costruzione o ristrutturazione di immobili, acquisto
di beni mobili, lo studio dei figli. Ovviamente le interviste che ho avuto modo
di consultare costituiscono solo un campione di indagine e una generalizzazione
risulterebbe poco scientifica.
Oggi il Salento, ma l’Italia
intera, è meta di immigrazione di massa da paesi in guerra, ma vede anche una
emigrazione di giovani in cerca di lavoro. E’ possibile fare dei paralleli fra
la situazione attuale e quella di cui parli nella tua tesi?
Ovviamente,
le cose sono molto cambiate da allora ma fare un parallelo viene spontaneo. Le
condizioni che spingono i migranti di oggi sulle nostre coste sono senza dubbio
differenti da quelle che spingevano i nostri connazionali ad emigrare
sessant'anni fa. Pertanto, per non cadere nella banalizzazione è opportuno
distinguere, storicamente, i due fenomeni. Se da un lato, almeno dal punto di
vista sociale, è facile paragonare i migranti di oggi ai nostri connazionali
che emigravano nel dopoguerra, dall'altro è chiaro come le motivazioni che
spingono i migranti ad affrontare il mare sui barconi sono più complesse.
É
vero, ancora oggi seppure in modalità diverse si emigra dal Salento, ma i
giovani che partono oggi molto spesso lo fanno con una laurea o un master in
tasca a differenza dei loro nonni, sperando in una realizzazione migliore
piuttosto che accettare lavori dequalificanti nel proprio paese.
É
anche vero che, come testimoniano documentari e inchieste giornalistiche, c'è
un ritorno delle partenze "all'avventura" ma non si può parlare di
dati ufficiali senza consultare i dati statistici e non è mia intenzione
addentrarmi in un campo che non mi appartiene.
Concludendo,
posso dire che la ricerca che ho condotto, oltre a studiare il fenomeno
dell'emigrazione da un punto di vista propriamente storiografico, ha voluto
mettere in luce la condizione di emigrante come condizione mentale di perenne
sospensione tra due mondi, una sorta di limbo in cui l'emigrante, suo malgrado,
si è spesso perduto.
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