L’album probabilmente più intenso di Fabrizio De Andrè è
Creuza de ma. Musicalmente a livello eccellente, a detta di molti critici uno
dei più importanti degli anni ’80, anche nei testi racconta storie vere, belle,
tristi, importanti. Si cala nelle realtà per prenderne le parti più dense. Una
delle storie raccontate è Sidùn (Sidone detto in genovese). La storia è quella
di un padre libanese che vede suo figlio schiacciato e dilaniato da un carro
armato dai soldati di Sharon. Dice De Andrè:
«Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto
anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l’attacco
subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come
un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in
braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di
sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole,
tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza.
La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente
confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come
la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua
discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà
mediterranea. »
Culla di civiltà, madre dell’alfabeto, territori con una
storia incredibile da raccontare, ora dilaniati da guerre che non sembrano
avere fine. Per chi era bimbo negli anni ’60 sentir dire delle tensioni e
guerre in “medio oriente” era quotidianità. Ci si faceva il callo, era come
mangiare a pranzo e cena, normale, ovvio, scontato. E forse questo è il vero
dramma di questi episodi, la quotidianità, il darli per scontati. Come le bombe
a Beirut o guerre più recenti in Afghanistan, guerre civili il Libia, in Siria
e ancora e ancora. Come allora a volte ci si scopriva a sorridere sentendo di
un golpe in centro america, generali golpisti che rimuovevano altri golpisti.
Eppure alle guerre non ci si deve abituare mai. La capacità e la sensibilità del poeta, dell’uomo
do cultura sta proprio nel restituirci la capacità di ascoltare, di vedere con
occhi diversi, indignati, quelle realtà.
SIDUN
U mæ ninin* u mæ u mæ lerfe grasse au su d'amë d'amë tûmù duçe benignu de teu muaè spremmûu 'nta maccaia de staë de staë e oua grûmmu de sangue ouëge e denti de laete e i euggi di surdatti chen arraggë cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de baë a scurrï a gente cumme selvaggin-a finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué e doppu u feru in gua i feri d'ä prixún e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún perchè de nostru da a cianûa a u meü nu peua ciû cresce ni ærbu ni spica ni figgeü ciao mæ 'nin l'eredítaë l'è ascusa 'nte sta çittaë ch'a brûxa ch'a brûxa inta seia che chin-a e in stu gran ciaeu de feugu pe a teu morte piccin-a. Ninin*: Vezzeggiativo che sta per bambino |
SIDONE
Il mio bambino il mio il mio labbra grasse al sole di miele di miele tumore dolce benigno di tua madre spremuto nell'afa umida dell'estate dell'estate e ora grumo di sangue orecchie e denti di latte e gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigione e nelle ferite il seme velenoso della deportazione perché di nostro dalla pianura al modo non possa più crescere albero né spiga né figlio ciao bambino mio l'eredità è nascosta in questa città che brucia che brucia nella sera che scende e in questa grande luce di fuoco per la tua piccola morte. |
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