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sabato 8 maggio 2021

otto maggio 1886 nasce la Coca Cola

 L’otto maggio 1886 Lo  statunitense John Stith Pemberton vendette per la prima volta la Coca-Cola come medicina brevettata.

Lui era un farmacista. Ufficiale dell’esercito, nel corso della guerra di secessione venne ferito gravemente al petto. Per sopportare i dolori fece uso abbondante di morfina al punto di diventarne dipendente.

Per uscirne iniziò a studiare la coca. Da farmacista e chimico, inventò il Vino Mariani, detto anche Vino di Coca.  Un intruglio a base di noce di coca e altri additivi. Il prodotto, vista la forte tossicodipendenza dei reduci e “l’isteria” delle loro signore, ebbe un successo immediato.

Nel 1886 fu decretato lo stop agli alcoolici, allora Pemberton e il suo collaboratore Venable, studiarono un prodotto alternativo non alcoolico. Il caso e lo studio li portarono alla formula di quella che chiamarono, per ricordare le radici, Coca Cola che venne venduta come medicinale.

Solo nel 1894 la coca cola venne venduta come bevanda. Iniziò l’espansione dell’azienda e durante la seconda guerra mondiale stabilimenti vennero aperti in più parti del mondo.

 

Pare, ma non è confermato in quanto la vulgata narra della segretezza dei componenti, che la ricetta originaria fosse questa:

 

Acido citrico: 3 once

Acqua: 2 galloni e mezzo

Alcool: 1 mezzo

Aroma: 2 once e mezza

Caramello: q.b.

Citrato di caffeina: 1 oncia

E. f. di coca (estratto fluido di coca): 4 once

Essenza d'arancia: 80

Essenza di cannella: 40

Essenza di coriandolo: 20

Essenza di limone: 120

Essenza di neroli: 40

Essenza di noce moscata: 40

Estratto di vaniglia: 1 oncia

Lasciare riposare per 24 ore.

Mescolare la caffeina, l'acido e il succo di lime in un quarto d'acqua bollente, aggiungere la vaniglia e l'aroma quando si è raffreddato. Aroma 7X:

Succo di lime: 1 quarto

Zucchero: 30 libbre

   

venerdì 7 maggio 2021

Perchè donare gli organi

Ripropongo una riflessione pubblicata su Spagine riguardo ai trapianti e alla necessità di donare gli organi 

Perchè donare gli organi.

 L’undici aprile scorso è stata la giornata per la donazione di organi. Moltissimi pazienti potrebbero tornare ad una vita dignitosamente migliore e pesare meno sui costi del servizio sanitario nazionale se si riuscisse a sfondare il muro di opposizioni alle donazioni  che ancora sembra  duro da scalfire.

I dati del Report donazione e trapianto del Ministero della Salute parlano chiaro, nel 2020, anche a causa della maledetta pandemia da COVID19, ma non solo, i donatori segnalati alle rianimazioni sono stati in flessione dai 2776 del 2019 ai 2447 del 2020.
Purtroppo alcune regioni sono tristemente in testa alla classifica delle opposizioni alle donazioni, parliamo di Sicilia, Calabria, Abruzzo, Puglia, Umbria e Provincia autonoma di Bolzano, e, sia pure con lieve calo, si confermano più sensibili Emilia, Veneto, Friuli, seguiti da Piemonte e Lombardia.
Il report prosegue poi con l’analisi di percentuali fra donatori deceduti e pazienti e fra donatori viventi.

Da dializzato in attesa di essere inserito in lista trapianti, ho letto con maggiore attenzione i dati delle donazioni di reni.

Per i trapienti di tali organi, il 2020 si è dimostrato un anno horribilis in quanto si è passati dai 340 del 2019 (punta massima) ai 276, tornando indietro di sei anni nei valori assoluti.

…Al 31 dicembre scorso i pazienti in lista di attesa lungo la Penisola erano 8758, la maggior parte dei quali per un rene (6538). Sono 1042 i pazienti iscritti in lista per il fegato, 719 per il cuore e 368 per il polmone. «Dati stabili – fanno sapere dal Centro Nazionale Trapianti – dovuti a un maggiore equilibrio, rispetto al passato, tra i flussi di entrata e di uscita». Per vederli diminuire, sono diverse le procedure in fase di valutazione: dalla donazione da vivente all’aumento del prelievo di organi, quando possibile, dalle persone per cui è stata certificata la morte cardiaca…”. (Fonte: Fondazione Veronesi )

Nei reparti dialisi che ho conosciuto, a Lecce e non solo, ho visto vere e proprie eccellenze, parlo di medici attenti ed esperti,  degli “angeli della dialisi”, quelle infermiere e infermieri e oss che diventano nel percorso di “tre volte a settimana”, parte integrante della vita del paziente.  Il reparto dialisi non è un luogo di passaggio, è una consuetudine, pur se forzata e indispensabile, che conosce  risvolti umani diversi e sicuramente più intensi e vissuti di ogni altro luogo di degenza. E finisce che fra pazienti e operatori di reparto si stabiliscano rapporti fatti di quasi familiarità, simpatie, scambi di opinioni e pareri non solo medici. Spesso si parla di vita quotidiana, di figli, di ricette di cucina. Il tutto per rendere la fatica della dialisi meno onerosa. In questo il personale che lì lavora è encomiabile.   

Nonostante tutto ciò il dializzato  è portatore di un handicap che lo costringe a rivedere tutta la sua vita in funzione dell’appuntamento “tre volte a settimana” dal quale non può sottrarsi per non sballare tutti i suoi parametri vitali. Le settimane passano a giorni alterni, non ci si può spostare per un periodo senza prima avere il consenso del centro dialisi remoto ad accogliere il paziente. Ed in un periodo di pandemia come quello attuale la cosa diventa quasi impossibile. Insomma, la vita è legata a quei due aghi, uno in vena uno in arteria, per tre volte a settimana.

A questo si aggiungono i costi economici per il servizio sanitari nazionale.

“Il costo diretto annuo del trattamento di un paziente in dialisi è stimato da un minimo di € 29.800, per quelli in dialisi peritoneale fino a un massimo di € 43.800 per quelli in emodialisi. A questi costi diretti, sanitari e non sanitari, andrebbero aggiunti i costi indiretti” Con il trapianto questi costi scenderebbero sensibilmente: “D’altra parte anche il trapianto renale ha i suoi costi che sono stimati in € 52.000 per il primo anno e in € 15.000 per ogni anno successivo al primo.” (Fonte: Il sole 24 ore)

Ovviamente, oltre ai nefropatici, esistono i malati di cuore, di fegato, i non vedenti, e molte altre patologie che potrebbero trarre beneficio da una donazione e tornare ad una vita più tranquilla.

Diventare donatori non è difficile, anzi, facendo la Carta di identità elettronica l‘impiegato chiederà la formale adesione come donatore, in alternativa si può scaricare il tesserino blu dal sito  http://sceglididonare.it/diventa-donatore/ del ministero della salute, o ancora recandosi alla ASL più vicina e chiedere il modulo apposito allo sportello. Dobbiamo in qualunque modo fare in maniera che il meridione si riscatti da questa sonnolenza, da paure ataviche e ingiustificate. Essere accoglienti è anche donare. E, per i credenti, non esiste alcun ostacolo alla donazione, come dice Papa Francesco  “Donare è espressione di fratellanza universale…”

Inoltre con l’adesione alla lista dei donatori fatta in vita, lucidamente e coscientemente, si evita un gravosissimo compito agli operatori sanitari che in troppi casi sono costretti, visti i tempi stretti per i prelievi da cadavere, a chiedere a familiari già dilaniati dal dolore per una perdita magari prematura, il consenso all’espianto.

Donare è vita!

G.Ferraris 

mercoledì 5 maggio 2021

Di papaveri, Marte e bellezza

                     





I papaveri, alti, belli, rossi. Li vedo nelle campagne salentine, passeggiando in stradine, immerso nel profumo dell’erba tagliata, dei pini marittimi, della primavera ormai inoltrata che avvolge.

E arrivano ricordi di corse in bicicletta fra i campi di grano lassù, nelle campagne solerine.

Eravamo piccoli allora, era un secolo fa, forse due. Campi di grano infiniti gialli come il sole, in mezzo macchie rosse e azzurre. Papaveri e fiordalisi a profusione, a colorare il mondo fatto di corse, rincorse, e poi noi seduti a terra a raccontarci i problemi dei bimbi neppure ancora adolescenti o a scoprire il cammino delle formiche in fila indiana.  

E le more di gelso raccolte seduti sui rami degli alberi che avevamo scalato coraggiosamente. “Mi piacciono le bianche” “a me le nere”. Poco importava, bastava scegliere l’albero giusto,  i gelsi erano ovunque in quella campagna. Un tempo servivano per delimitare gli appezzamenti e soprattutto per procurare il nutrimento per i bachi da seta che divoravamo le loro foglie.

Però quando noi eravamo su quegli alberi di bachi non se ne allevavano più.

Poi tagliarono anche quelli per fare spazio a mietitrebbie alte come palazzi.

Ed erano già ricordi le feste della trebbiatura nelle aie, con un sacco di persone al lavoro, con noi bimbi a tagliare fili di ferro che servivano per legare le balle di paglia, con il panino di metà mattinata portato dalla signora. Vino per loro, acqua per noi, a volte gazzosa.

Poi, poco alla volta, se ne sono andati i papaveri e i fiordalisi. Distrutti da diserbanti che dicono “intelligenti”, quelli che selezionano lo sterminio. Rimane solo il grano, è biondo e ariano.

 Ora i campi sono solo verdi prima, gialli dopo. E neppure si trebbia più. Ora quelle astronavi immense  fanno tutto, mietono, trebbiano  e sputano nel campo quelle cose con un nome orribile “rotoballe”.

Bastano un po’ di papaveri per tornare indietro nel tempo. “Ah quando i mulini erano bianchi” “Si, però la gente mangiava pane nero”, beh, è vero. Saranno belli i papaveri e i fiordalisi nel grano , però occorre produrre in fretta e bene, soprattutto occorre risparmiare perché poi arriva il grano canadese e ci fa concorrenza.

Però il bello è indispensabile.

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». Diceva Peppino Impastato.

Eh lo so, sembrano discorsi da vecchio disilluso e forse stanco.

“Siamo nel 2021, fattene una ragione, andiamo di Marte, facciamo tutto con una banale stampante 3D, abbiamo i computer e facebook.”  Eggià, andiamo su Marte perché dobbiamo scoprire se qualche milione di anni fa lassù c’era acqua, perbacco questa è evoluzione della specie. Dalle caverne a Marte come niente fosse.

“Scusate se interrompo il sogno marziano, però a pochissime ore di volo da qui ci sta un continente dove metà della popolazione muore di sete perché non ha acqua, forse ci sarebbe una priorità,  che facciamo? Diciamo loro di bere champagne?”

E poi, diciamolo, su Marte non ci sta uno straccio di petalo di papavero, vale la pena?

Ah la vecchiaia, si diventa rompipalle in un attimo. 

Mica siamo proiettati nel futuro noi del secolo scorso. Addirittura non vogliamo il ponte sullo stretto perché forse la cementificazione dovrebbe essere quanto meno rallentata, perché non serve, perché è uno scempio che va a intaccare quella bellezza (ecccola che ritorna) che ha fatto di questi luoghi un unicum irripetibile ed emozionante.Ma già, noi siamo vecchi e antichi. Come i poeti che ancora stanno a scrivere versi per guardarsi dentro e proiettarsi fuori. Come il pittore che davanti ad una tela bianca già vede i gesti, i tratti, l’opera compiuta e poi ci si accorge di essere di fronte ad un’emozione. Tutti orpelli inutili ai tempi dei social dove tutti sanno tutto.Noi siamo così, un po’ fuori di testa che andiamo a camminare emozionandoci in mezzo al silenzio di un bosco o al rumore del mare che parla, sussurra, urla. Un mare che sputa fuori corpi che quelli che cercano acqua su Marte non conoscono e quelli che vogliono il ponte non vogliono neppure vedere.

 Ma questa è altra storia.