Ieri, primo novembre,
è stata la giornata vegana. Ebbene si, ieri abbiamo imparato che essere vegani
implica una serie di scelte molto rigide e, per noi onnivori, difficoltose.
Occorre essere informati su tutto quello che si mangia e si indossa. Una
faticaccia vera e propria, infatti il vegano DOC non mangia pesce, carne,
salumi, insaccati, formaggi, latte animale, uova, cereali se non integrali,
preparati con farine 00, burro, miele, pasta all’uovo, cioccolato (ammesso solo
il fondente o quello prodotto con latte vegetale), alcoolici, zucchero bianco e
di canna a meno che non sia scritto sulla confezione “vegan”. Perché gli
zuccheri vengono filtrati con filtri di origine animale. Da escludere caffè e
the, ammessa la sola birra “vegan”.
Scritta su un muro |
Per
quanto riguarda l’abbigliamento attenzione assoluta a pelli e pellicce, ammessi
solo quelli assolutamente derivati da vegetali o sintetici (che poi derivano
dal petrolio, ma questo non importa). Attenzione alle scarpe, orrore se sono in
cuoio o pelle. Evitare lane, piume,
seta, tutti terrificanti di origine animale. Insomma, una vitaccia veramente
quella dei vegani oltranzisti. Però dicono di stare meglio, ecco, approvo e
difendo la loro libertà. Però nessuno ha il diritto di dirmi, se sono davanti
ad un cotoletta impanata o a un lesso misto di carni accompagnati da maionese,
che sono un criminale. E poi, diciamolo, una cotoletta è veloce, pratica,
facile da preparare, e mi piace un sacco.
E sicuramente non
erano vegani i contadini piemontesi di un tempo. Avete presente quello che si
chiama “apericena”? Mica è invenzione degli yuppies anni ’80 o dei postadolescenti
anni 2000. In Piemonte esiste dall’800. Si chiamava merenda sinoira (tradotto letteralmente merenda cena).
Il contadino
soprattutto nei mesi estivi, si alzava prima dell’alba, immediatamente andava
nella stalla ad accudire il bestiame, poi faceva una sontuosa colazione fatta o
con gli avanzi della cena della sera precedente o con quel che c’era in giro.
Magari una tazza di latte, non infrequente pane strofinato d’aglio (soma d’aji)
con un bicchiere di vino. Quindi andava nei campi. Dopo un pasto frugale a metà
giornata proseguivano nei campi fino al calar del sole, però le giornate erano
lunghe, e soprattutto durante la raccolta del grano o la vendemmia, nel tardo
pomeriggio, necessitavano di un po’ di riposo e di rifocillarsi. Così tiravano
fuori quel che si erano portati, quel che la praticità imponeva: salumi, aglio
e pane, formaggio, frittate, e non poteva mancare un bicchiere di vino,
ovviamente. Magari tenuto in fresco nelle carcasse di zucca svuotate e con un
buco in cima che contribuivano a mantenere una temperatura costante.
Oggi esiste quell’altra cosa, quella parola
tristissima: apericena. Ma nessuno ha inventato nulla.
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