I papaveri, alti, belli, rossi. Li vedo nelle campagne salentine,
passeggiando in stradine, immerso nel profumo dell’erba tagliata, dei pini
marittimi, della primavera ormai inoltrata che avvolge.
E arrivano ricordi di corse in bicicletta fra i campi di grano lassù,
nelle campagne solerine.
Eravamo piccoli allora, era un secolo fa, forse due. Campi di grano
infiniti gialli come il sole, in mezzo macchie rosse e azzurre. Papaveri e
fiordalisi a profusione, a colorare il mondo fatto di corse, rincorse, e poi
noi seduti a terra a raccontarci i problemi dei bimbi neppure ancora
adolescenti o a scoprire il cammino delle formiche in fila indiana.
E le more di gelso raccolte seduti sui rami degli alberi che avevamo
scalato coraggiosamente. “Mi piacciono le bianche” “a me le nere”. Poco
importava, bastava scegliere l’albero giusto, i gelsi erano ovunque in quella campagna. Un
tempo servivano per delimitare gli appezzamenti e soprattutto per procurare il
nutrimento per i bachi da seta che divoravamo le loro foglie.
Però quando noi eravamo su quegli alberi di bachi non se ne allevavano
più.
Poi tagliarono anche quelli per fare spazio a mietitrebbie alte come
palazzi.
Ed erano già ricordi le feste della trebbiatura nelle aie, con un
sacco di persone al lavoro, con noi bimbi a tagliare fili di ferro che
servivano per legare le balle di paglia, con il panino di metà mattinata
portato dalla signora. Vino per loro, acqua per noi, a volte gazzosa.
Poi, poco alla volta, se ne sono andati i papaveri e i fiordalisi.
Distrutti da diserbanti che dicono “intelligenti”, quelli che selezionano lo
sterminio. Rimane solo il grano, è biondo e ariano.
Ora i campi sono solo verdi
prima, gialli dopo. E neppure si trebbia più. Ora quelle astronavi immense fanno tutto, mietono, trebbiano e sputano nel campo quelle cose con un nome
orribile “rotoballe”.
Bastano un po’ di papaveri per tornare indietro nel tempo. “Ah quando
i mulini erano bianchi” “Si, però la gente mangiava pane nero”, beh, è vero.
Saranno belli i papaveri e i fiordalisi nel grano , però occorre produrre in
fretta e bene, soprattutto occorre risparmiare perché poi arriva il grano
canadese e ci fa concorrenza.
Però il bello è indispensabile.
«Se si insegnasse la bellezza
alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e
l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il
loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si
mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si
dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che
è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che
bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si
insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la
curiosità e lo stupore». Diceva Peppino Impastato.
Eh lo so, sembrano discorsi da vecchio disilluso e forse stanco.
“Siamo nel 2021, fattene una ragione, andiamo di Marte, facciamo tutto
con una banale stampante 3D, abbiamo i computer e facebook.” Eggià, andiamo su Marte perché dobbiamo
scoprire se qualche milione di anni fa lassù c’era acqua, perbacco questa è
evoluzione della specie. Dalle caverne a Marte come niente fosse.
“Scusate se interrompo il sogno marziano, però a pochissime ore di
volo da qui ci sta un continente dove metà della popolazione muore di sete
perché non ha acqua, forse ci sarebbe una priorità, che facciamo? Diciamo loro di bere
champagne?”
E poi, diciamolo, su Marte non ci sta uno straccio di petalo di
papavero, vale la pena?
Ah la
vecchiaia, si diventa rompipalle in un attimo.
Mica siamo proiettati nel futuro noi del secolo scorso. Addirittura non vogliamo il ponte sullo stretto perché forse la cementificazione dovrebbe essere quanto meno rallentata, perché non serve, perché è uno scempio che va a intaccare quella bellezza (ecccola che ritorna) che ha fatto di questi luoghi un unicum irripetibile ed emozionante.Ma già, noi siamo vecchi e antichi. Come i poeti che ancora stanno a scrivere versi per guardarsi dentro e proiettarsi fuori. Come il pittore che davanti ad una tela bianca già vede i gesti, i tratti, l’opera compiuta e poi ci si accorge di essere di fronte ad un’emozione. Tutti orpelli inutili ai tempi dei social dove tutti sanno tutto.Noi siamo così, un po’ fuori di testa che andiamo a camminare emozionandoci in mezzo al silenzio di un bosco o al rumore del mare che parla, sussurra, urla. Un mare che sputa fuori corpi che quelli che cercano acqua su Marte non conoscono e quelli che vogliono il ponte non vogliono neppure vedere.
Ma questa è altra storia.
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