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lunedì 22 novembre 2021

MAQROLL (Il gabbiere) l'ultimo disco di Federico Sirianni

 

                                    

…Álvaro Mutis ha creato uno dei personaggi letterari più remoti e magnetici della letteratura del Novecento. Maqroll il Gabbiere.

Maqroll è una specie di Chisciotte con Pascal conficcato in fronte, una sorta di Corto Maltese, un cugino di primo grado del Marlowe di Conrad, un uomo che sceglie il mare per onestà verso la solitudine e sbarca segugio di amori peregrini che continuano a perseguitarlo. Nasce da sempre, dai primi libri poetici di Mutis (dove è censita, anzi tutto, la Preghiera di Maqroll: “Perché hai tolto ai ciechi il bastone con cui laceravano la densa felpa del desiderio che li assedia e li sorprende nelle tenebre?”), poi s’inerpica in romanzi di claustrale bellezza, riassunti nella trilogia “Imprese e tribolazioni di Maqroll il Gabbiere”, redatta tra 1985 e 1989, costituita da La Neve dell’Ammiraglio, Ilona arriva con la pioggia, Un bel morir. Prima, però, per impratichirsi con i detti deflagranti dell’uomo che ha dissipato tutto, bisogna partire con la poesia: la Summa di Maqroll il Gabbiere (Einaudi, 1993) e Gli elementi del disastro (Le lettere, 1997). Poi si prosegue inseguendo la scia dei suoi amici e delle sue elusioni in L’ultimo scalo del Tramp Steamer (stampa Adelphi), Amirbar, Abdul Bashur sognatore di navi, Trittico di mare e di terra (ancora Einaudi). Sono libri che vanno assunti quando non si ha nulla da perdere, sulla soglia di una conversione, se si è pronti a essere preda della propria fuga – e di un ritorno che è sbarco in altrove.  (Da Pangea.it)

Alvaro Mutis ((Bogotà, 25 agosto 1923 – Città del Messico, 22 settembre 2013) romanziere e poeta Colombiano di nascita, naturalizzato messicano, è stato autore molto apprezzato, giudicato una delle migliori espressioni della letteratura dell’America Latina, ha dato vita al gabbiere Maqroll, (il gabbiere era la vedetta che stava in cima all’albero della nave), lui vede tutto dall’alto, lontano dalla folla che sta a terra, lui gira il mondo e lo conosce, ne scava contraddizioni e bellezze. Fondamentalmente anarchico e “visionario”, Maqroll vede tutto con lo sguardo sognante . Maqroll non salva l’umanità dalle sue tragedie, lui da lassù si limita a vedere, osservare e avvertire quel che si incontrerà e che, dopo il suo urlo, là sotto sapranno, e decideranno come comportarsi.

Mutis fu anche l’ispiratore di Fabrizio De Andrè . Smisurata preghiera, l’ultima canzone del suo ultimo album, affonda le mani nella vita di Maqroll, è “E’ una richiesta a Dio affichè la fortuna aiuti gli emarginati “come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”. (Magazine.it)


 Maqroll è anche il titolo dell’ultimo emozionante album di Federico Sirianni. Il cantautore genovese ci sorprende (ma neppure molto) con un lavoro maturo, un degno proseguimento della scuola che ha sfornato stelle luminosissime a noi tutti. Forse è la strana alchimia di una città schiacciata fra monti e mare, città di porto, dove arrivano da sempre e da sempre partono esploratori, emigranti, vite che la riempiono di lingue, dialetti. Genova austera e fiera, accogliente nei suoi silenzi.

Sirianni e Max Manfredi sono gli eredi di una tradizione che ha reso la canzone/poesia uno strumento per riflettere anche sulla quotidianità, sulla condizione umana, persino sulla trascendenza (per chi ci crede) .

“…Quando l’uomo costruì la prima nave

Guidato da uno spirito randagio

Inconsapevole di quell’errore

Avrebbe costruito anche il naufragio

E ogni naufragio è una catastrofe del cuore

Che mi porto addosso come una bisaccia

Dove si assopisce ogni dolore come la briza che cede alla bonaccia…”

Canta Federico Sirianni.

Forse sta in questo inizio dell’album il senso del lavoro tutto, un viaggio che, come dice lui stesso nelle note di presentazione dell’album:   sfidando la tempesta e la bonaccia, i capodogli e le sirene, vuole raggiungere un porto d’approdo, con già nella testa e negli occhi l’idea di una nuova partenza, di un nuovo percorso, di un nuovo naufragio”.

Maqroll il Gabbiere, oltre al CD, è un libro con  una serie di racconti e poesie di autori vari che ne fanno un’opera da ascoltare, leggere. Amare.

 

Federico Sirianni, (Genova 1968), Cantautore, ha inciso:

2002 - Onde clandestine (Shinseiki-Warner)

2006 - Dal basso dei cieli (Upr-La Casa) - (ripubblicato nel 2009 dall'etichetta Leart con l'aggiunta dell'inedito Picchiagosto)

2012 - Nella prossima vita (Incipit Records) con gli Gnu Quartet

2013 - Vinile di Natale - Dio dei Baraccati (uscito in vinile con 100 copie numerate)

2016 - Il Santo

2021 – Maqroll il gabbiere

 

 



venerdì 1 ottobre 2021

Mario Perrotta e la "sua" Lecce

 


Lumezzane (Bs) Ragazzola (Pr) San Giorgio delle Pertiche (Pd) , Grosseto, Milano, Medicina (Bo) , Cascina (Pi) . E potremmo proseguire.  

Però, stranamente, dal lungo elenco delle sue trasferte, manca una città, la sua città, quella dove è nato e dalla quale è partito e dove ha vissuto a lungo. Manca Lecce nei tour di uno dei più importanti autori, interpreti e registi del teatro italiano.

Mario Perrotta ha un retroterra ed una produzione importantissimi, che gli hanno consentito di vincere tre premi UBU (Praticamente i nobel del teatro italiano).

Dopo la meraviglia irripetibile di versoterra, una tre giorni en plein aire ,  dal 30 settembre al 2 ottobre 2016, di cui scrissi le impressioni da non critico (https://isolamaitrovata.blogspot.com/2016/10/versoterra-lettera-mario-perrotta.html), ma che blasonatissimi osservatori ammirarono, e dopo rare apparizioni in provincia, Lecce non degna di attenzione l’artista Mario Perrotta.

Neppure nelle giornate dedicate a Dante, in cui è stato chiamato come direttore artistico a Grosseto .

Eppure Mario ha portato il Salento con le cadenze della sua parlata, i viaggi dei suoi migranti, la fatica della sua terra e lo splendore del suo barocco fuori dalla provincia che pare dimostrarsi, ahinoi, distratta.

Forse sarebbe il caso di sfatare il mito che vuole che nemo propheta in patria, con la difficoltà di esprimersi nel luogo di nascita, di vita vissuta e riconosciuto fuori. Insomma, Mario Perrotta lavora, è giovane e, oltre tutto, è una persona stupenda. Forse sarebbe il caso di valorizzarlo ora

mercoledì 29 settembre 2021

A Mauro, Grazie!!!!!

 



Arrivata (quasi) la fine di settembre, si inizia a fare un resoconto dell’estate torrida e piena appena passata.

A Lecce abbiamo vissuto una vera e propria esplosione di avvenimenti, una bulimia in risposta a due maledetti e lunghi tempi di chiusure, pandemie, mascherine, distanziamenti, novax e sivax e ansie, paure, incertezze.                          

E la città ha riposto in modo egregio a concerti, presentazioni di libri, mostre ed ogni tipo di evento proposto.

Gli sforzi sono stati notevoli da molte parti, ben sappiamo come  organizzare costi non solo in termini di denaro, ma anche come precisione, puntualità, costanza.

Ecco, la costanza paga sempre, essere testardamente e caparbiamente impegnati a diffondere e proporre cultura in ogni ambito e  con la tenacia che mette in disparte gli scoramenti per serate magari non riuscite, per assenze dovute a mille motivi e altro, è vitale per creare.

Personalmente faccio ammenda, ho seguito pochissimo per motivi personali, di salute, per il caldo eccessivo di troppi giorni. Però ho visto stelle brillare nell’universo dell’organizzazione di eventi e avvenimenti.

Ho la fortuna ed il privilegio di avere come amico un instancabile lavoratore della cultura, Mauro Marino. Organizza, prepara, è presente. In più è poeta. Un unicum veramente invidiabile nel panorama delle scelte culturali della città. Per tre mesi non ha perso una serata, ad Extra Convitto ha creato una vera  e propria agorà    di discussione, ascolto, comprensione.

In sostanza una risorsa per chi ha a cuore  la necessità di andare oltre al barocco e alla movida, di tuffarsi nel presente tenendosi dentro il patrimonio del passato anche remoto. Una risorsa, ahinoi, spesso non considerata da chi ha il compito di fare sintesi con le scelte amministrative e culturali della città.

Ecco, voglio ringraziare tutti gli operatori che hanno lavorato in questa rovente estate, ma in particolare il pacato Mauro. Con affetto.   

Chiudo citando Norberto Bobbio che, ritengo, benissimo calza con il pensiero di Mauro:

 

Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.

(Norberto Bobbio)


venerdì 28 maggio 2021

Economia, politica e mancanza di etica

 

“Non sempre il vero è anche verosimile” (Guy De Maupasant)

 Ponte Morandi: 43 morti. 2020

Funivia Mottarone: 14 morti. 2021

Thyssen Krupp: 7 morti a Torino. 2007

Sabaudia 2021: almeno 10 immigrati di origine indiana morti per overdose. Un medico e un farmacista compiacenti con i proprietari terrieri pare vendessero farmaci dopanti agli immigrati per farli lavorare di più, sfruttati, nei campi di italiani.

E potremmo proseguire a lungo citando le troppe morti sul lavoro per inadeguatezza o volontaria manomissione di strumenti di sicurezza.

Ma cosa hanno in comune queste morti?

Un filo nero lega le tragedie : il profitto ad ogni costo.

Non è più mistero che qualcuno si faceva pagare lautamente per controlli sul Morandi mai eseguiti. Neppure che un “fervente cattolico” (sic) e altri amichetti suoi avessero manomesso il freno di emergenza della funivia per non perdere incassi. Manutenere significa fermare qualche ora l’impianto, e che diamine, mica si può.

Ed è di questi giorni la pubblicazione di alcune telefonate di criminali che ridevano sonoramente parlando di “quei bambini che mangeranno ortaggi coltivati sui fanghi”, quei fanghi che loro avevano interrato nel profondo nord (Emilia, Piemonte, Lombardia)   campagne che poi erano diventati campi rigogliosi dove si coltivano ortaggi e cancro per bambini e adulti.

Il profitto ad ogni costo . Appunto.

Purtroppo tutto questo accade perché l’etica è ad un livello talmente infimo da essere dimenticata.

Gli esempi, purtroppo, arrivano dall’alto, molto in alto.

Quando condannati in via definitiva siedono in Senato e alla Camera dei deputati e vengono osannati come padri nobili della patria, convocati al Quirinale per consultazioni, quando ladri e collusi condannati invia definitiva, ladri di denaro pubblico,  si vedono confermato il vitalizio, quando deputati e senatori prendono lauti stipendi pur avendo, giusto per citare i leader di classifica,   percentuali assurde di assenze  dai lavori delle Camere:

 Camera dei deputati

 Michela Vittoria Brambilla (99%)

Antonio Angelucci (95,40%)

Guido Della Frera (83,10%)

Vittorio Sgarbi (77,70%)

 

Senato

 Tommaso Cerno (78,10%)

Niccolò Ghedini (71,40%)

Ignazio La Russa (59%)

 

Quando tutto questo accade significa che l’etica in Italia è sotto la soglia di guardia, significa che i peggiori si sentono in diritto di emulare altri peggiori. Esattamente come le mafie che lentamente ma inesorabilmente si sono impossessate di buona parte dell’economia partendo dal sud e invadendo ogni angolo del nord con una filosofia assolutamente identica a quella dei dirigenti Tyssen, dei telefonatori ridenti, dei sabotatori di funivie, dei proprietari terrieri che sfruttano manodopera fuori da ogni regola. Tutti sentendosi in qualche modo protetti da una politica avvoltolata sulla valutazione dei sondaggi, senza una prospettiva alta e una visione lunga sul futuro .

Non a caso uomini del malaffare si impossessano dei partiti meno dotati di vis democratica (vedi gli ndranghetisti in fratelli d’italia e sindaci e amministratori leghisti arrestati per collusioni e malaffare), non a caso in quanto queste formazioni politiche hanno eliminato dai loro comportamenti e dalle loro parole ogni riferimento all’etica non solo in politica, ma anche nella vita quotidiana.

In tutto questo scempio gioca duro un’informazione asservita, tranne alcune lodevoli eccezioni, e ridotta a portavoce dei peggiori social network invece che all’analisi puntuale e precisa, allo scavare nella notizia, alla ricerca. Esempio limpido di tutto ciò sono le trasmissioni in cui politici e sedicenti giornalisti litigano, si scannano, spesso mentendo spudoratamente.

Riprendiamoci l’etica, i partiti che hanno a cuore la democrazia e la Carta Costituzionale si ribellino con i fatti a questi scempi. In alternativa non c’è recovery found che tenga, sprofonderemo sempre più nel baratro dei telefonatori ridenti e  dei sabotatori di funivie, dei mafiosi celati da vesti di imprenditori.    

sabato 8 maggio 2021

otto maggio 1886 nasce la Coca Cola

 L’otto maggio 1886 Lo  statunitense John Stith Pemberton vendette per la prima volta la Coca-Cola come medicina brevettata.

Lui era un farmacista. Ufficiale dell’esercito, nel corso della guerra di secessione venne ferito gravemente al petto. Per sopportare i dolori fece uso abbondante di morfina al punto di diventarne dipendente.

Per uscirne iniziò a studiare la coca. Da farmacista e chimico, inventò il Vino Mariani, detto anche Vino di Coca.  Un intruglio a base di noce di coca e altri additivi. Il prodotto, vista la forte tossicodipendenza dei reduci e “l’isteria” delle loro signore, ebbe un successo immediato.

Nel 1886 fu decretato lo stop agli alcoolici, allora Pemberton e il suo collaboratore Venable, studiarono un prodotto alternativo non alcoolico. Il caso e lo studio li portarono alla formula di quella che chiamarono, per ricordare le radici, Coca Cola che venne venduta come medicinale.

Solo nel 1894 la coca cola venne venduta come bevanda. Iniziò l’espansione dell’azienda e durante la seconda guerra mondiale stabilimenti vennero aperti in più parti del mondo.

 

Pare, ma non è confermato in quanto la vulgata narra della segretezza dei componenti, che la ricetta originaria fosse questa:

 

Acido citrico: 3 once

Acqua: 2 galloni e mezzo

Alcool: 1 mezzo

Aroma: 2 once e mezza

Caramello: q.b.

Citrato di caffeina: 1 oncia

E. f. di coca (estratto fluido di coca): 4 once

Essenza d'arancia: 80

Essenza di cannella: 40

Essenza di coriandolo: 20

Essenza di limone: 120

Essenza di neroli: 40

Essenza di noce moscata: 40

Estratto di vaniglia: 1 oncia

Lasciare riposare per 24 ore.

Mescolare la caffeina, l'acido e il succo di lime in un quarto d'acqua bollente, aggiungere la vaniglia e l'aroma quando si è raffreddato. Aroma 7X:

Succo di lime: 1 quarto

Zucchero: 30 libbre

   

venerdì 7 maggio 2021

Perchè donare gli organi

Ripropongo una riflessione pubblicata su Spagine riguardo ai trapianti e alla necessità di donare gli organi 

Perchè donare gli organi.

 L’undici aprile scorso è stata la giornata per la donazione di organi. Moltissimi pazienti potrebbero tornare ad una vita dignitosamente migliore e pesare meno sui costi del servizio sanitario nazionale se si riuscisse a sfondare il muro di opposizioni alle donazioni  che ancora sembra  duro da scalfire.

I dati del Report donazione e trapianto del Ministero della Salute parlano chiaro, nel 2020, anche a causa della maledetta pandemia da COVID19, ma non solo, i donatori segnalati alle rianimazioni sono stati in flessione dai 2776 del 2019 ai 2447 del 2020.
Purtroppo alcune regioni sono tristemente in testa alla classifica delle opposizioni alle donazioni, parliamo di Sicilia, Calabria, Abruzzo, Puglia, Umbria e Provincia autonoma di Bolzano, e, sia pure con lieve calo, si confermano più sensibili Emilia, Veneto, Friuli, seguiti da Piemonte e Lombardia.
Il report prosegue poi con l’analisi di percentuali fra donatori deceduti e pazienti e fra donatori viventi.

Da dializzato in attesa di essere inserito in lista trapianti, ho letto con maggiore attenzione i dati delle donazioni di reni.

Per i trapienti di tali organi, il 2020 si è dimostrato un anno horribilis in quanto si è passati dai 340 del 2019 (punta massima) ai 276, tornando indietro di sei anni nei valori assoluti.

…Al 31 dicembre scorso i pazienti in lista di attesa lungo la Penisola erano 8758, la maggior parte dei quali per un rene (6538). Sono 1042 i pazienti iscritti in lista per il fegato, 719 per il cuore e 368 per il polmone. «Dati stabili – fanno sapere dal Centro Nazionale Trapianti – dovuti a un maggiore equilibrio, rispetto al passato, tra i flussi di entrata e di uscita». Per vederli diminuire, sono diverse le procedure in fase di valutazione: dalla donazione da vivente all’aumento del prelievo di organi, quando possibile, dalle persone per cui è stata certificata la morte cardiaca…”. (Fonte: Fondazione Veronesi )

Nei reparti dialisi che ho conosciuto, a Lecce e non solo, ho visto vere e proprie eccellenze, parlo di medici attenti ed esperti,  degli “angeli della dialisi”, quelle infermiere e infermieri e oss che diventano nel percorso di “tre volte a settimana”, parte integrante della vita del paziente.  Il reparto dialisi non è un luogo di passaggio, è una consuetudine, pur se forzata e indispensabile, che conosce  risvolti umani diversi e sicuramente più intensi e vissuti di ogni altro luogo di degenza. E finisce che fra pazienti e operatori di reparto si stabiliscano rapporti fatti di quasi familiarità, simpatie, scambi di opinioni e pareri non solo medici. Spesso si parla di vita quotidiana, di figli, di ricette di cucina. Il tutto per rendere la fatica della dialisi meno onerosa. In questo il personale che lì lavora è encomiabile.   

Nonostante tutto ciò il dializzato  è portatore di un handicap che lo costringe a rivedere tutta la sua vita in funzione dell’appuntamento “tre volte a settimana” dal quale non può sottrarsi per non sballare tutti i suoi parametri vitali. Le settimane passano a giorni alterni, non ci si può spostare per un periodo senza prima avere il consenso del centro dialisi remoto ad accogliere il paziente. Ed in un periodo di pandemia come quello attuale la cosa diventa quasi impossibile. Insomma, la vita è legata a quei due aghi, uno in vena uno in arteria, per tre volte a settimana.

A questo si aggiungono i costi economici per il servizio sanitari nazionale.

“Il costo diretto annuo del trattamento di un paziente in dialisi è stimato da un minimo di € 29.800, per quelli in dialisi peritoneale fino a un massimo di € 43.800 per quelli in emodialisi. A questi costi diretti, sanitari e non sanitari, andrebbero aggiunti i costi indiretti” Con il trapianto questi costi scenderebbero sensibilmente: “D’altra parte anche il trapianto renale ha i suoi costi che sono stimati in € 52.000 per il primo anno e in € 15.000 per ogni anno successivo al primo.” (Fonte: Il sole 24 ore)

Ovviamente, oltre ai nefropatici, esistono i malati di cuore, di fegato, i non vedenti, e molte altre patologie che potrebbero trarre beneficio da una donazione e tornare ad una vita più tranquilla.

Diventare donatori non è difficile, anzi, facendo la Carta di identità elettronica l‘impiegato chiederà la formale adesione come donatore, in alternativa si può scaricare il tesserino blu dal sito  http://sceglididonare.it/diventa-donatore/ del ministero della salute, o ancora recandosi alla ASL più vicina e chiedere il modulo apposito allo sportello. Dobbiamo in qualunque modo fare in maniera che il meridione si riscatti da questa sonnolenza, da paure ataviche e ingiustificate. Essere accoglienti è anche donare. E, per i credenti, non esiste alcun ostacolo alla donazione, come dice Papa Francesco  “Donare è espressione di fratellanza universale…”

Inoltre con l’adesione alla lista dei donatori fatta in vita, lucidamente e coscientemente, si evita un gravosissimo compito agli operatori sanitari che in troppi casi sono costretti, visti i tempi stretti per i prelievi da cadavere, a chiedere a familiari già dilaniati dal dolore per una perdita magari prematura, il consenso all’espianto.

Donare è vita!

G.Ferraris 

mercoledì 5 maggio 2021

Di papaveri, Marte e bellezza

                     





I papaveri, alti, belli, rossi. Li vedo nelle campagne salentine, passeggiando in stradine, immerso nel profumo dell’erba tagliata, dei pini marittimi, della primavera ormai inoltrata che avvolge.

E arrivano ricordi di corse in bicicletta fra i campi di grano lassù, nelle campagne solerine.

Eravamo piccoli allora, era un secolo fa, forse due. Campi di grano infiniti gialli come il sole, in mezzo macchie rosse e azzurre. Papaveri e fiordalisi a profusione, a colorare il mondo fatto di corse, rincorse, e poi noi seduti a terra a raccontarci i problemi dei bimbi neppure ancora adolescenti o a scoprire il cammino delle formiche in fila indiana.  

E le more di gelso raccolte seduti sui rami degli alberi che avevamo scalato coraggiosamente. “Mi piacciono le bianche” “a me le nere”. Poco importava, bastava scegliere l’albero giusto,  i gelsi erano ovunque in quella campagna. Un tempo servivano per delimitare gli appezzamenti e soprattutto per procurare il nutrimento per i bachi da seta che divoravamo le loro foglie.

Però quando noi eravamo su quegli alberi di bachi non se ne allevavano più.

Poi tagliarono anche quelli per fare spazio a mietitrebbie alte come palazzi.

Ed erano già ricordi le feste della trebbiatura nelle aie, con un sacco di persone al lavoro, con noi bimbi a tagliare fili di ferro che servivano per legare le balle di paglia, con il panino di metà mattinata portato dalla signora. Vino per loro, acqua per noi, a volte gazzosa.

Poi, poco alla volta, se ne sono andati i papaveri e i fiordalisi. Distrutti da diserbanti che dicono “intelligenti”, quelli che selezionano lo sterminio. Rimane solo il grano, è biondo e ariano.

 Ora i campi sono solo verdi prima, gialli dopo. E neppure si trebbia più. Ora quelle astronavi immense  fanno tutto, mietono, trebbiano  e sputano nel campo quelle cose con un nome orribile “rotoballe”.

Bastano un po’ di papaveri per tornare indietro nel tempo. “Ah quando i mulini erano bianchi” “Si, però la gente mangiava pane nero”, beh, è vero. Saranno belli i papaveri e i fiordalisi nel grano , però occorre produrre in fretta e bene, soprattutto occorre risparmiare perché poi arriva il grano canadese e ci fa concorrenza.

Però il bello è indispensabile.

«Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore». Diceva Peppino Impastato.

Eh lo so, sembrano discorsi da vecchio disilluso e forse stanco.

“Siamo nel 2021, fattene una ragione, andiamo di Marte, facciamo tutto con una banale stampante 3D, abbiamo i computer e facebook.”  Eggià, andiamo su Marte perché dobbiamo scoprire se qualche milione di anni fa lassù c’era acqua, perbacco questa è evoluzione della specie. Dalle caverne a Marte come niente fosse.

“Scusate se interrompo il sogno marziano, però a pochissime ore di volo da qui ci sta un continente dove metà della popolazione muore di sete perché non ha acqua, forse ci sarebbe una priorità,  che facciamo? Diciamo loro di bere champagne?”

E poi, diciamolo, su Marte non ci sta uno straccio di petalo di papavero, vale la pena?

Ah la vecchiaia, si diventa rompipalle in un attimo. 

Mica siamo proiettati nel futuro noi del secolo scorso. Addirittura non vogliamo il ponte sullo stretto perché forse la cementificazione dovrebbe essere quanto meno rallentata, perché non serve, perché è uno scempio che va a intaccare quella bellezza (ecccola che ritorna) che ha fatto di questi luoghi un unicum irripetibile ed emozionante.Ma già, noi siamo vecchi e antichi. Come i poeti che ancora stanno a scrivere versi per guardarsi dentro e proiettarsi fuori. Come il pittore che davanti ad una tela bianca già vede i gesti, i tratti, l’opera compiuta e poi ci si accorge di essere di fronte ad un’emozione. Tutti orpelli inutili ai tempi dei social dove tutti sanno tutto.Noi siamo così, un po’ fuori di testa che andiamo a camminare emozionandoci in mezzo al silenzio di un bosco o al rumore del mare che parla, sussurra, urla. Un mare che sputa fuori corpi che quelli che cercano acqua su Marte non conoscono e quelli che vogliono il ponte non vogliono neppure vedere.

 Ma questa è altra storia.  

 

lunedì 5 aprile 2021

BUONA PASAH

 

 Anche quest’anno abbiamo superato una Pasqua diversa, meno gioiosa. Un festività in pandemia, con un buio ancora davanti a noi e di cui non vediamo la fine. L’inquietudine del non intuire il nemico subdolo che si annida ovunque, che guizza invisibile agli occhi e che possiamo combattere con una sola arma, il vaccino. E questo ci salva dalla malattia ma non dal poter trasmettere il virus, quindi i famigerati e inquietanti (almeno quanto il virus stesso) novax si dimostrano due volte imbecilli, soprattutto quelli che dicono “vaccinatevi così mi salvate”. I vaccinati sono più tranquilli, i non vaccinati rimangono bersagli del maledetto.

Le Pasque quindi. Queste ultime due mi rendono più simpatica la Pasqua ebraica. La “Pasah” che significa, letteralmente “andare oltre”. E che festeggia la liberazione degli ebrei e il passaggio, guidati da Mosè, del Mar Rosso.

Così diversa dalla cristiana “panthein” che in greco significa “soffrire”, e nella tradizione è la passione del Cristo e la resurrezione.

Sentiamo come non mai il desiderio di oltrepassare, andare oltre questo anno maledetto fatto di zone rosse gialle arancioni. Un anno in cui si è fermato il tempo e si sono bloccati i rapporti sociali, dalla piccola gioia di un caffè seduti al tavolino di un bar, alle evasioni in pizzeria o al cinema. Per i ragazzi si è fermata anche la scuola e la possibilità di socializzare che in adolescenza e preadolescenza è vitale, educativa, forma le persone e crea rapporti sociali.

Siamo al punto in cui un incontro casuale per strada si traduce in un saluto e poche parole “a distanza di sicurezza” perché lui si annida in un respiro. Quasi come un alito, lieve e assassino.

Ben venga allora la Pasah con il passaggio dei nostri mari guidati da chi sa di scienza e ricerca, non certo da politicanti d’accatto che inciampano nelle regole e nella lingua italiana.

E, in fondo, ben venga la resurrezione. Collettiva però, non del solo figlio di Dio. E ancora ricadiamo, una resurrezione che deve essere Liberazione. Ci deve liberare dal virus e dai pregiudizi, dalle parole insensate e (magari) pure dalle scemenze del web che intasano menti e buon senso. E allora ancora, buona Pasah a tutti noi. Ne abbiamo bisogno.

 

mercoledì 3 marzo 2021

Un anno in pandemia

 

foto dal sito andreani gioielli

Un intero anno convissuto con il COVID, con la pandemia, con l’apparente follia di “tutto aperto” “tutto chiuso” “forse metà aperto”. Un anno passato a mesi alterni a bere un caffè sul marciapiedi in bicchierini di plastica incrementando a dismisura la raccolta rifiuti, o in comode tazzine al banco del bar quasi si stesse vivendo un privilegio (solo fino alle 18 però, poi coprifuoco), e poi scuole aperte, scuole chiuse, scuole mezze aperte, scuole “chi vuole stia a casa chi non vuole vada in classe”. Un baillamme quasi incomprensibile.

E poi virologi in quantità, tutti a dare notizie in TV, spesso contraddittorie fra loro. E il web con una miriade di teste diverse: impauriti, demoralizzati, preoccupati, negazionisti che “il coviddi non esiste”, idioti che “vaccinatevi voi”, infermiere che non si vaccinano perché non ci credono e alla buon’ora una regione, la Puglia, che impone obbligo vaccinale per gli operatori della sanità. “Se non vogliono vaccinarsi facciano un altro mestiere” dice l’assessore, bontà sua.

E ancora ristoranti chiusi la sera e aperti a pranzo, e zone colorate in arancione che come diventano gialle pensano bene di assieparsi come a Pasquetta e dopo due giorni il covid si impenna quasi per magia, ma i negazionisti continuano imperterriti a dimostrare un preoccupante aumento di cretinismo.

E il ricordo di camion militari carichi di bare.

E poi le mascherine che subito sono diventate fashion. Da umili azzurrine o bianche si sono tramutate in eleganti orpelli con strass, colorate, disegnate. Ho visto un tizio con abbigliamento tipico degli assicuratori e agenti immobiliari: abito scuro, camicia, cravatta e borsa in pelle o cuoio, con mascherina in tinta con la cravatta. Insomma, si fa di necessità virtù.

In tutto questo, partendo dai balconi con gli arcobaleni con su scritto che andrà tutto bene, arrivando alla spossatezza di un anno bizzarro, sono aumentati i suicidi. Un anno è lungo da un articolo su primocanale.it si evince che fra tentati e riusciti suicidi fra i giovani e giovanissimi l’aumento è stato del 30%. E in importante aumento sono anche quelli, tentati e riusciti, fra gli adulti. L’impennata è dovuta a molteplici cause. Intanto l’isolamento forzato in casa soprattutto nel primo momento, poi la mancanza socializzazione dei ragazzi con le scuole chiuse, la didattica a distanza non basta da sola a colmare vuoti relazionali, serve forse per imparare, per studiare in qualche modo, però mancano gli sguardi, le pacche, gli scherzi, il parlare fra coetanei. Per gli adulti i fattori di rischio sono decisamente maggiori: il terrore per un nemico invisibile che può insinuarsi in ascensore, sul corrimano della scala, per uno sternuto in strada. L’ossessione per una vita fatta di mani lavate e rilavate, mascherine forse riutilizzabili, forse no. E poi la situazione economica con negozi chiusi o che lavorano a metà, commesse e camerieri e cameriere di bar lasciati a casa “perché non ci sono clienti”. Mancati incassi, mancate vendite, piccole e medie industrie che hanno visto crollare le ordinazioni e datori di lavoro, imprenditori che hanno visto aumentare la situazione debitoria senza poter fare nulla. Il blocco delle tasse è un momento di respiro, però è un debito che si cumula e che, prima o dopo, occorrerà pagare. A fronte di tutto ciò la depressione prende il sopravvento, e qualcuno non regge. In troppi non reggono. I cartelli “affittasi negozio” aumentano vertiginosamente e, a quanto è dato sapere, gli affitti rimangono esorbitanti.

Un anno è lungo anche per chi ha una vita, tutto sommato, normale. Per il pensionato che si preoccupa con cautela per i figli, per esempio. Quando la tua vita sociale si annulla, non ci sono cinema aperti, la fuga dalla routine in pizzeria una sera è solo un sogno d’altri tempi. Abolite le presentazioni di libri e i momenti di discussione pubblici, dove magari ci si incazzava un po’, ma alla fine erano tarallucci, vino e due risate. L’incontro al bar con l’amico che sentivi per telefono, un aperitivo seduti al tavolino. Una vita tranquilla cassata di colpo da miriadi di DPCM. Così alla fine ti ritrovi impigrito, grigio, stanco. Si esce con la mascherina, se si incontra qualcuno che si conosce non ci si dà la mano perché non è igienico (il meno intelligente parlò di tornare al saluto romano), si sta a distanza di sicurezza anche con la mascherina.

Insomma lo scoramento è molto anche per i più ottimisti, vedere in un solo anno mutate le abitudini e le consuetudini senza riuscire a intravedere una via d’uscita da tutto ciò può portare scoramento, apatia.

Per questo occorre credere fermamente nel vaccino, non foss’altro per avere un briciolo di speranza e immaginare una vita, quanto meno, normale. 

E per ridare speranza a quegli anziani soli, e non sono pochi, che magari già prima uscivano poco, ma non erano obbligati a stare in casa. La differenza non è poca.   

lunedì 8 febbraio 2021

Governo Draghi, fine dei partiti, Matteo e Matteo

 Siamo alla vigilia del varo del nuovo governo guidato da Draghi. Uomo della finanza alta, altissima. Un governo apolitico che, nei fatti, azzera la politica. I partiti, come già con il mai rimpianto governo Monti, si fanno da parte perché, nei fatti, sono evaporati. La caduta di idee (non solo delle ideologie) e l’abisso creato fra loro e le persone, gli elettori, pare incolmabile. Mondi separati. Non si comprende, per esempio, quale sia per i partiti l’idea di una società possibile che vada oltre la contingenza del momento,  di ampio respiro. E penso al partito che dovrebbe essere quello più vicino ad un’idea di democrazia condivisa, il PD. Come temuto a suo tempo, la fusione a freddo della vecchia DC con l’antico PCI (PDS, DS) ha disvelato l’annichilimento di quest’ultimo e la guida, non sempre dignitosa, di arrembanti ex democristiani.



Vuole il MIUR

Fino al capolavoro delle primarie che santificarono Matteo Renzi (detto Matteo d’Arabia) alla sua guida. Il resto è storia recente.

Matteo d'Arabia

                                                      

Il Matteo è riuscito a cacciare Letta e sostituirlo, ha creato una riforma costituzionale criminale chiedendo  un referendum che doveva avallare il peggio e anche di più, praticamente chiese all’epoca un plebiscito sulla sua persona. Il PD plaudente lo seguì nella catastrofica sconfitta.

Alle elezioni successive, visto lo stallo di tre formazioni parimerito, fece carte false pur di mandare i cinque stelle nella braccia della destra più becera di Salvini. Disse allora “mai con loro”. Nel frattempo uscì dal PD portandosi dietro veline, valletti e scherani di varia natura e, dopo la caduta del primo governo Conte, fece carte false per auspicare un’alleanza PD cinque stelle e con lui a fare da ago della bilancia . Ah la coerenza del saudito.

Ex ministra Bellanova

                                                    

Non contento, forse era questo il suo intento da sempre, fece cadere anche il governo Conte due con una mirabile conferenza stampa in cui dimetteva, praticamente non lasciandole parlare, le due ministre del suo partito.

Con l’incarico a Draghi di formare il nuovo governo ora i suoi giochi sono fatti, è riuscito nel capolavoro di avere una asse di ferro con il peggiore, l’altro Matteo, quello dei 49 milioni rubati e restituibili in 70 anni.

La politica, in sostanza, è annichilita dalla verve di personaggi inquietanti con un seguito risibile fra gli elettori.

Ora temo ci spetterà un governo simil Monti, lacrime e sangue. Con la variante che stanno arrivando moltissimi soldi dall’Europa, grazie al lavoro di Conte. Soldi che fanno gola a moltissimi, in particolare a chi è più contiguo alle mafie.

In questa crisi epocale, sanitaria, economica, sociale, dovrebbe essere al primo posto il welfare: sanità pubblica potenziata e gratuita, possibilmente tolta dalle rapaci mani di presidenti di regioni che sono troppo spesso incapaci, arraffoni, improvvisatori. Scuola e università gratuite e potenziate nel loro agire, magari con stipendi adeguati per i docenti e strumenti per i ragazzi. Quanto meno con edifici scolastici che non crollino al primo alito di vento. Infrastrutture adeguate a potenziare la maggiore industria del nostro paese: turismo, arte, cultura. Matteo d’Arabia, per dire, vuole il ponte sullo stretto, opera degna di un Berlusconi qualunque e delle sue olgettine e assolutamente inutile nell’economia della mobilità. Qui, in tutto il meridione, mancano treni decenti, strade degne di essere percorse, collegamenti dignitosi fra le marine e le città d’arte, e questi pensano a un ponte assolutamente inutile e sul quale ha già messo mano cosa nostra da una parte e la ndrangheta dall’altra.

Dei cinque stelle occorre dire che sono l’apoteosi dell’incoerenza istituzionale.

Volevano “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno” (cito Grillo in persona).

Negarono ogni possibilità ad un governo con Bersani in un primo tempo. Poi, dopo le capriole di Renzi, si allearono con la lega di Salvini (il peggior partito intriso di razzismo, omofobia, xenofobia, vicino alle dittature sovraniste), e da Salvini furono mandati al diavolo, altra capriola,  alleanza con il PD dicendo “mai più con Salvini”. Ora tornano con lega e PD. Se non è isteria questa.

                                   

In sostanza, siamo ad un altro bivio della democrazia italiana, o i partiti, e parlo di quelli che hanno a cuore la democrazia, non certo della lega, di fratelli d’italia e simili cascami dell’umanità, devono tornare a fare politica alta. Matteo d’Arabia è solo un tristissimo momento, destinato a scomparire alle prossime elezioni (a meno che il PD magnanimamente, non offra collegi sicuri alle varie veline del saudito, cosa assolutamente non improbabile).

Insomma, che la politica torni ad essere ciò che l’etimologia del termine dice: l’arte di governare lo Stato. Oggi siamo alle basse manovre di sottogoverno, alle unioni fra i peggiori e nei fatti, al soccombere della democrazia messa nelle mani di burocrati che guarderanno le banche e i banchieri piuttosto che la res publica.

lunedì 18 gennaio 2021

Profumi e ricordi

 



"Limbico”, così si chiama il sistema che regola la memoria olfattiva. Preferisco però chiamarlo più poeticamente Sindrome di Proust. Nella Ricerca del tempo perduto, il profumo di una madeleine lo riporta all’antico, a ricordare, a navigare con la memoria.

 Leggo (cito un articolo su neocogita) che Uno studio della Rockefeller University di New York ha dimostrato che le persone possono ricordare il 35% di quanto annusano, rispetto al 5% di ciò che vedono, al 2% di ciò che sentono e all’1% di quello che toccano.

 Inoltre “…Lo studio confermerebbe, quindi, che il senso dell'olfatto ha una grande importanza nei nostri ricordi e nella loro rievocazione. Profumi e odori sarebbero tra i ricordi più duraturi e capaci di "coordinare" anche altre memorie…” (FOCUS)

 Profumi che senti a improvvisamente ricordi, nessun computer al mondo è facondo come la mente umana. Antichi momenti, sensazioni, emozioni che sembravano nascosti in cassetti della memoria, improvvisi si ripropongono come deja vu . Parlavo una volta del profumo dei mandarini appena raccolti che mi riproposero altri mandarini in altri momenti, prima dell’avvento delle filiere dall’albero al frigorifero al camion refrigerato e giungono a nord deprivati della loro essenza più intima, quel profumo che solo appena raccolti senti, che penetra, inonda, avvolge. Risentire quel profumo che sa di Salento ed essere proiettato nei pomeriggi piemontesi passati a guardar scendere neve fitta, sparpaglioni grandi, leggeri. E poi il gelo della notte, la brina della mattina, i vetri ghiacciati, la scuola in grembiule nero e fiocco azzurro, la cartella che passava dal fratello maggiore al più piccolo.

Attimi, flash.

Profumi delicati di fiori in primavera, che irrompono tristi in novembre, quando appartenevano ai cimiteri che si visitavano. Prima di farne luoghi che non visito più, neppure nei giorni dedicati ai morti, perché i ricordi sono dentro di te, solo lì.

Altri profumi, altri ricordi. Odore di pulito quando qualcuno aveva passato la cera e in estate c’era penombra nelle camere e mi aggiravo in silenzio per sentire il piacere, per odorare, quasi fosse una droga. E da sotto mia madre che diceva di scendere e non sporcare altrimenti erano sberle (per altro mai arrivate nonostante ripetute minacce, da allora capivi che si potevano violare alcuni ordini, solo con cautela però). E poi altri profumi, la vita scorre, quello di fumo di sigarette, del bar sport durante partite a scopone o nel mezzo di animate conversazioni. Politica, donne e calcio. E il profumo del caffè di Giuseppe in sottofondo.

E ancora, la vita prosegue, l’inchiostro del ciclostile, la colla per manifesti  affissi di corsa, la notte. Profumi di voglia di un mondo diverso, più equo. Sogni che si scontravano con un settarismo un po’ becero che tuttavia fa parte ancora oggi dell’attualità.

Intanto, fra una riunione, un corteo, uno sciopero “operai studenti uniti nella lotta” ma con pochissimi operai e molti studenti, in casa, rientrando, altri profumi rassicuravano: il ragù della mamma. Inebriante. Allora non sapevo che non era solo mangiare per sopravvivere, ma che mi avrebbe accompagnato fino ai 70 anni, che improvviso, imprevisto, impudico, si sarebbe ripresentato un giorno di gennaio, mentre fuori una tramontana gelida tagliava i pensieri e congelava le mani.

Profumi… Odori… sensazioni… emozioni… Turbinii di sguardi al passato e al futuro (che ormai è oggi) da bere a piccoli sorsi.


 Corrispondenze

 La Natura è un tempio dove colonne vive

lasciano a volte uscire confuse parole;

l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli

che l’osservano con sguardi familiari.

Come echi lunghi che da lontano si fondono

in una tenebrosa e profonda unità

vasta quanto la notte e quanto la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

 Ci sono profumi freschi come carni infantili,

dolci come oboi, verdi come praterie

– e altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle cose infinite,

come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso

che cantano gli abbandoni dello spirito e dei sensi.

(C. Boudelaire)

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 15 gennaio 2021

Il futuro è oggi

Gialli, arancioni, rossi, bianchi…  Siamo diventati da pandemici e multicolor. O forse siamo multipandemici. In era di crisi di governo non male trovarci belli colorati. Però arrivano le altre  crisi, quelle da astinenza di pizzeria, di abbracci. Siamo diventati popolo di lontani che si prendono a gomitate anziché darsi la mano. In realtà ne vedo pochi, ormai ci si saluta a gesti mantenendo debite distanze.

Quando riconosci l’altro. Già, perché le mascherine, oltre ad appannare gli occhiali e farti camminare nella nebbia fitta, ti costringono (finalmente) a guardare l’altro negli occhi, così ti accorgi di non saper più riconoscere le persone. Lo sguardo, che è specchio dell’anima come dice qualcuno,  in epoca precovid, era diventato spesso solo un orpello. Guardare dritto negli occhi significa scrutarsi dentro, cercare l’anima dell’altro, o capire come sei nello sguardo dell’altro. Specchi, riflessi, lampi. Forse per questo spesso si tende ad evitarlo. La mascherina però ti costringe, e neppure sai se l’altro ti sta sorridendo oppure (come dice una mia amica)  ti fa la linguaccia quando ti incrocia. Ti costringe a farlo, così scopri, scruti, accarezzi con lo sguardo. Occhi che sorridono, occhi tristi, grandi, piccoli, chiari, neri come la notte. Occhi…

Siamo in un passaggio epocale, il millennio si dividerà in pre covid e post covid.

Però qualche lusso possiamo consentircelo. Visto che siamo gialli, possiamo addirittura andare al bar a bere un caffè in una vera tazzina. Quando eravamo arancioni  si doveva prendere il caffè al banco, pagare, e uscire sul marciapiedi a berlo in un bicchierino di plastica, aumentando a dismisura la plastica da riciclare, e se era troppo caldo rischiando ustioni alle dita.

Ora entriamo, però rigorosamente con mascherina, richiamati in caso contrario e additati alla folla come (quasi) untori. Il tutto fino al bancone, poi o bevi il caffè o tieni la mascherina, quando paghi 90 centesimi non sei più un untore.

Gialli o arancioni o rossi poco importa, i teatri e i cinema e i musei sono chiusi rigorosamente. Facciamo a meno di arte e di cultura? Non si può, non si deve. O meglio, non si potrebbe, non si dovrebbe.  Dobbiamo per forza ri/pensare alla vita in pandemia, rileggere libri, riflettere su come fruire arte, teatro, danza, musica, poesia. Le dirette facebook, le riunioni on line, gli auguri ai figli da lontano, gli aperitivi in video chiamata (che i più raffinati chiamano call), tutte panacee che fanno quasi il paio con la mascherina che nasconde, cela, lascia immaginare un sorriso. Fingiamo di essere felici.

Intanto la vita scorre anche per le strade, quando siamo gialli o arancioni, non cessano i clacson, neppure le sirene delle ambulanze. Solo il mare è sempre là con il suo movimento lento o violento, con i suoi suoni che accompagnano i pensieri e le emozioni. E sono là gli ulivi, sofferenti per xilella o rigogliosamente fieri con i loro secoli di vita. Pensieri che si avvoltolano proprio in questo inizio anno in cui, ormai, scopro di non essere più neppure anziano, ma vecchio, eggià, quando il futuro è oggi.

Buona pandemia a tutti.