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giovedì 23 febbraio 2017

"Con il Cappello in mano"

Risultati immagini per logo borsalinoFino al secondo dopoguerra, più o meno negli anni ’60 del novecento, il cappello per gli uomini era un capo d’abbigliamento quasi d’obbligo. Poi piano piano divenne desueto. Sappiamo come le mode cambiano, giacca e cravatta erano d’obbligo alle superiori, poi arrivarono i jeans e le t shirt, gli eskimo e via cambiando.
E la moda del cappello in particolare fece la fortuna della Borsalino di Alessandria. Fondata da Giuseppe Borsalino nel 1857, il quale rilevò un piccolo cappellificio, raggiunse presto una produzione di 750.000 cappelli annui arrivando addirittura a due milioni negli anni precedenti la prima grande guerra. 2.500 arrivarono ad essere gli operai ed operaie i impiegate, famosissime ad Alessandria erano “le Borsaline” sulle quali si rumoreggiava in città. Il feltro dei cappelli Borsalino era fatto di pelliccia di coniglio opportunamente lavorata. Ricordo, negli anni ’60, il tipo che arrivava con il suo tre ruote a raccogliere ferraglia e acquistare pelli  nei paesi dove moltissimi avevano il pollaio e le gabbia dei conigli che venivano sacrificati per le feste o in altri periodi.

E i dipendenti Borsalino lavoravano quelle pelli e, verso la fine del fascismo, furono in prima fila negli scioperi del 1943 / 1944 quando operai delle grandi città scesero nelle piazze rivendicando pace e democrazia.   Della Borsalino furono anche molti resistenti che presero le armi contro il nazifascismo.
Impiegato dell’azienda, prima della clandestinità, fu Walter Audisio, il Colonnello Valerio che ebbe il compito di prelevare e giustiziare il duce in quel di Dongo.
"Le Borsaline"
Nel dopoguerra la Borsalino conquistò i mercati americani e inglesi, si espanse in tutto il mondo, divenne film con Alain Delon e Jean Paul Belmondo nel 1970. Il mondo intero portava in testa pelli di coniglio del mio paese, quasi una contaminazione culturale.

Poi seguì un declino lento a causa delle mode che richiedevano meno cappelli, la produzione prosegue ancora, anche se l’antico stabilimento in centro città è diventato museo del cappello e sede dell’università mentre il simbolo più alto, la ciminiera, è stato abbattuto per far guadagnare qualche costruttore edile.
E di cappelli si parla molto ultimamente, pare un vezzo, ma i politici amano citarli spesso:

Non andremo da D’Alema “con il cappello in mano” Vendola al congresso fondativo di  S.I.

Non andremo in Europa “con il cappello in mano” Renzi
Renzi va dalla Merkel “con il cappello in mano” Salvini
Abbonati, non abbiamo “il cappello in mano” Il Fatto Quotidiano

Insomma il cappello in mano sta diventando un tormentone utilizzato per significare, ovviamente, l’elemosinare qualche monetina o prebenda. Nessuno vuole andare da nessun altro “con il cappello in mano”, neppure in segno di cortesia, come si usava un tempo.

Leghista DOC
Al massimo lo si può metaforicamente sollevare per un breve saluto o citarlo semplicemente complimentandosi con qualcuno e sussurrando in francese “chapeau”.
E ci sono ancora personaggi che indossano orgogliosi strambi copricapi, convinti di essere 
affascinanti,  lo fanno in pubbliche adunate. Poi ci sono gli anziani, che in inverno guai ad uscire senza il capo coperto “perché non bisogna prendere freddo”.
In estate si vedono, e qui Borsalino non c’entra, i panama, bianchi, apparentemente freschi, simili ai sombreri che riparano dal sole i messicani durante la pennichella, quella che a Napoli si chiama controra.














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